La chiamano subscription fatigue e nel nuovo ecosistema post pandemico sta al settore digitale come il big leave sta al mercato del lavoro: dopo le grandi dimissioni, è arrivato il momento delle grandi disiscrizioni.
Secondo Repubblica, il mercato italiano della subscription economy è ancora in espansione: gli abbonati ai servizi TV a pagamento nel 2021 erano 17,8 milioni (+ 1,4 milioni rispetto al 2020). Di questi, quasi la metà è pluri-abbonato.
Al momento qui da Sottosopra Comunicazione abbiamo tutte tra le 2 e le 7 subscription attive tra news, musica e video (senza contare quelle che utilizziamo per lavoro). Sono tante? Di sicuro non sono poche. Com’è potuto succedere?
È successo che la pandemia ha fatto impennare il nostro consumo mediatico, alimentando le già floride creator e subscription economy. Le iscrizioni a servizi di musica in streaming, piattaforme cinema, TV e giornali si sono moltiplicate, e magari per la prima volta ci siamo abbonati al Patreon o al Substack dei nostri creators preferiti, o abbiamo sottoscritto qualche servizio di spesa a domicilio in abbonamento come Cortilia, Babaco o Amazon.
Gli abbonamenti non sono tutti uguali
Ovviamente c’è una chiara differenza tra abbonarsi ai contenuti di content creator, artisti, scrittori e giornalisti indipendenti e dare dei soldi ad una media company multimiliardaria come Amazon. Ma alla fine del mese tutte le voci di spesa vanno a sommarsi in un unico bilancio, che inizia a diventare altino. E se all’aumento dell’offerta di contenuti non corrisponde una crescita del nostro potere di acquisto, arriveremo inevitabilmente ad un punto di rottura anche qui in Italia. È arrivato il momento di eliminare qualcosa, ma da dove iniziare?
Ormai alcune di queste piattaforme vengono date per scontate, tanto da accettarne il costo fisso come se fosse una bolletta. Pensateci: è ancora immaginabile disiscriversi da Spotify o da Apple Music? Quante persone, oggi, possiedono fisicamente la musica che ascoltano? Siamo pronti a ritirare fuori i CD e le cartelle “musica” dai dischi di memoria? Difficile. Questo perché nell’industria culturale abbiamo assistito al passaggio dal concetto di ownership a quello di usership: l’idea che possiamo fruire di un prodotto anche senza possederlo.
Anche gli abbonamenti TV sopravvivono abbastanza bene ai repulisti di primo livello, soprattutto se li mettiamo a confronto con i servizi di delivery di cibo che da quando siamo tornati a fare spesa e shopping dal vivo, sono più facilmente sacrificabili. Tuttavia: quanta TV in streaming guardiamo veramente, da quando le attività sociali hanno ripreso un ritmo pre-pandemico? Quanto tempo dedichiamo a ciascuna delle piattaforme a cui siamo abbonati se il nostro relax casalingo è conteso tra streaming video, gaming online, abbonamento digitale di yoga e fitness, lettura dei giornali a pagamento, sottoscrizioni a newsletter su Substack, canali YouTube supportati con Patreon e sbirciatine su OnlyFans?
Il trend della subscription fatigue in US: quali prospettive per l’Italia?
Se guardiamo agli Stati Uniti, dove il mercato degli abbonamenti è sicuramente più sviluppato e maturo, Forbes definisce la situazione “the great unsubscribe”. Mentre la società di consulenza Kerney parla di “subscription apocalipse” e riporta che il 40% dei consumatori statunitensi pensa di avere troppi abbonamenti.
Alla luce dei dati italiani in crescita, Valerio Bassan, esperto di subscription economy e di strategie di monetizzazione per media company, spiega nella sua newsletter che nell’intrattenimento video, una tra i settori più competitivi, la tendenza al multi-abbonamento sta raggiungendo la soglia critica anche in Italia.
“Uno studio di Deloitte denota che già nel gennaio 2020 circa il 20% delle persone con uno o più servizi di streaming attivi aveva effettuato almeno una cancellazione nel corso dell’anno precedente. A ottobre 2020, con l’ingresso sul mercato di nuovi player (Disney+ su tutti), quella percentuale si è alzata fino al 46% — segno evidente che l’aumento della competizione aveva costretto molti utenti a rinunciare a qualcosa.”
Ma se la disiscrizione è la scelta più drastica, a monte ci sono altre strategie di risparmio collettivo. In primis la condivisione e scambio di abbonamenti con amici e familiari. Ci sono poi dei servizi – ShareSub, Spliiit e TogetherPrice – che permettono di condividere le piattaforme con estranei, così come esiste un folto sottobosco che lo fa illegalmente su larga scala. Bassan la chiama “Bundlizzazione naturale”, in risposta alla “scarcity artificiale”. Dove per scarcity artificiale si indica la tendenza delle nuove economie digitali a prosperare sul concetto di finitezza. Non la finitezza delle risorse in sé, ma dell’accesso alle stesse. Pensiamo ai giornali i cui articoli migliori si celano dietro ad un paywall, o alle nuove strategie di pricing delle piattaforme per limitare il fenomeno degli abbonamenti condivisi.
Come stanno reagendo le piattaforme alla subscription fatigue?
Male. Lo scorso aprile Netflix ha reso pubblici i dati relativi agli utili trimestrali, annunciando di aver perso 200.000 abbonati: si tratta della prima flessione in più di dieci anni. Un’ammissione che ha provocato forti onde d’urto nel mondo dei media digitali, in quanto si tratta di un calo dovuto a fattori esclusivamente esterni: l’inflazione a livelli storici e la vita quotidiana tornata a ritmi pre-pandemia.
E mentre in Perù, Cile e Costa Rica Netflix sta testando la possibilità di aumentare il costo dell’abbonamento per chi condivide gli accessi con persone non conviventi, in Italia aveva fatto scalpore la scelta di DAZN di dimezzare il numero di stream contemporanei da un singolo account. Imputando il cambio di rotta alla necessità di arginare la pirateria, DAZN ha presentato pochi giorni fa i nuovi prezzi degli abbonamenti: 10€ in più per chi condivide lo streaming con non conviventi.
Possibili scenari futuri
Il limite di saturazione degli abbonamenti che ciascuno di noi può economicamente sostenere è soggettivo, ma secondo Bassan questa tendenza alla disiscrizione modificherà le strategie concorrenziali delle piattaforme:
“il numero di utenze contemporanee potrebbe diventare una delle nuove frontiere della sfida commerciale tra piattaforme. Così come la qualità dello streaming, la piacevolezza dell’interfaccia, l’efficacia degli algoritmi di scoperta: in un mercato sempre più saturato, i margini si riducono.”
In questo senso, nel settore giornalistico abbiamo almeno due esempi vincenti: il Times in USA e il Post in Italia. Il primo ha implementato un’aggressiva strategia di acquisizione, aggregando per gli abbonati siti di cucina, shopping, giochi online e la rivista sportiva The Athletic, aumentando notevolmente il valore aggiunto e variegato dell’offerta a pagamento. Mentre in Italia il Post si è guadagnato una stabile base di abbonati grazie ad un processo fondato su un giornalismo didattico e accessibile, che ha capito il valore dei link. Il daily podcast di Francesco Costa è stato poi un gigantesco traino, così come le newsletter tematiche, gli eventi, gli altri podcast e l’avventura editoriale di Cose spiegate bene. In una recente intervisa il direttore Luca Sofri dichiarava che “nel 2021, il 55% dei ricavi del Post derivava dagli abbonati, il 35% dalla pubblicità e il 10% da tutto il resto”.
Ma che accadrà allo streaming video? Un scenario possibile è quello dell’insorgenza di grossi conglomerati che aggreghino più servizi e piattaforme, nel tentativo di aumentare il valore aggiunto, semplificare la user experience e ridurre i costi per l’utente finale.
Le piattaforme per anni hanno investito massivamente sull’acquisizione di nuovi utenti, investendo su contenuti originali, ma ora dovranno concentrarsi sempre di più sulla ritenzione degli abbonati. In questo senso alcune hanno già iniziato a sperimentare l’upload graduale degli episodi: caricando gli episodi di una nuova serie uno a settimana, come si faceva una volta, si impedisce il bing watching durante i 7 giorni di prova gratuita e poi l’abbandono della piattaforma.
E noi?
Noi in ufficio abbiamo già iniziato la decrescita. La piattaforma di film d’essai Mubi è stupenda ma poco si adatta all’encefalogramma piatto che spesso ci coglie dopo una lunga giornata lavorativa. Quasi tutti gli altri abbonamenti sono condivisi con familiari e vicini. Gli artisti e i content creator li finanziamo una tantum. Quel che è certo è che non vogliamo diventare “vecchie abbonate” perchè come decantava in un vecchio sketch un Fabio DeLuigi profetico, il vecchio abbonato ci smena sempre. Meglio disabbonarsi!
Se volete approfondire il tema della creator economy, ne avevamo parlato in questo articolo.
Per quanto riguarda la monetizzazione nel mondo dei podcast in Italia, è da poco uscita la prima puntata della nuova serie di “Problemi” il podcast di Jonathan Zenti che parla proprio di questo.
Se siete invece appassionati di newsletter (anche gratuite), ne avevamo fatta una selezione qui.