Nelle scorse settimane abbiamo partecipato a What’s Next? 2020, la tavola rotonda organizzata da Francesco Morace al Future Concept Lab (Istituto di Ricerca e Consulenza Strategica ) che ha riunito un gruppo di esperti di marketing e comunicazione chiamati a confrontarsi sui trend, i valori e le strategie dei prossimi anni ’20.
Tra tendenze emergenti e urgenze sociali, si è parlato di sostenibilità, responsabilità collettiva ed etica e di quanto aziende e professionisti debbano lavorare in sinergia, o di come nell’era delle fake news sia sempre più necessario un patto di trasparenza tra gli attori coinvolti per ristabilire la fiducia nel consumatore.
Temi attuali e fondamentali per comunicare in maniera pertinente in questa nuova decade appena iniziata che ci hanno spinto a voler approfondire i diversi argomenti nell’intervista di questa settimana, proprio in compagnia di Francesco Morace.
Per i pochi che non ti conoscono, chi è Francesco Morace?
Sono un sociologo che da sempre si occupa di marketing (in termini di ricerca, consulenza e formazione), insieme a un gruppo di lavoro che comprende anche mia moglie Linda, anche lei sociologa. Abbiamo una vocazione antropologica di lettura della realtà attraverso i comportamenti delle persone e i valori che mano a mano si evolvono. Future Concept Lab è il laboratorio dei concetti del futuro e dei veri cambiamenti che normalmente portano a dei percorsi che nel medio e lungo termine le aziende devono intraprendere. Parlavamo di sostenibilità trent’anni fa per esempio e oggi ci siamo arrivati: alcuni concetti hanno bisogno di un lungo periodo di gestazione.
All’ultimo What’s Next, l’evento sui trend dell’anno, hai detto che “il 2020 sarà l’anno dell’etica aumentata”: partiamo da qui.
Per noi sono importanti le parole, soprattutto oggi che il linguaggio si sta impoverendo, in particolare modo nelle aziende. Questo rappresenta un problema perché il pensiero è fatto di parole, e viene da sé che banalizzando le parole, banalizziamo il pensiero. Il digitale rischia di azzerare l’umanità se non riusciamo a gestirla con dei valori, ovvero attraverso l’etica aumentata.
I prossimi anni ’20 dovranno svilupparsi all’insegna di un’etica aumentata che protegga i diritti del mondo fisico (ambiente, comunità locali, ecc), valorizzi le persone in carne e ossa e la loro dignità, utilizzando anche la potenza dei Big Data per raggiungere l’obiettivo. Affinché la missione sia compiuta, bisognerà coinvolgere le energie delle nuove generazioni: Millennials e Generazione Z saranno in grado di fare la differenza ed è dalle loro sensibilità che bisognerà ripartire.
Secondo l’ultimo (il 53°) rapporto Censis sulla società italiana, il 75% degli italiani non si fida più degli altri: da cosa è dovuta principalmente questa sfiducia dilagante?
Intanto arriva dalle parole che appunto vengono usate spesso in modo irresponsabile e poi dall’aggressività dei toni che il mondo della politica ha deciso di introdurre in questi ultimi due anni. I toni si sono fortemente radicalizzati e il digitale e i social hanno amplificato questa aggressività creando una situazione preoccupante dalla quale guardarci. Da ciò dobbiamo “difenderci” per definire nuove regole, partendo dall’uso del linguaggio. Un primo tentativo sta emergendo spontaneamente dal movimento delle Sardine, non solo sui contenuti ma anche proprio sul modo di proporsi.
Sostenibilità, una parola ormai sulla bocca di tutti: cosa succede secondo te, quando un tema si svuota di significato e diventa mass market?
Da un lato, sociologicamente, è un segnale incoraggiante: significa che quel concetto ha finalmente raggiunto l’anima e la sensibilità di tanti, dopo essere rimasto di nicchia per quasi quarant’anni. Se una parola diventa mainstream dobbiamo essere contenti ma anche consapevoli dei rischi che ne conseguono, ovvero che venga banalizzato. Rischiano di diventare quelle parole “valigia” in cui ognuno mette ciò che vuole. Parlare di sostenibilità oggi non definisce una destinazione ma un bisogno e credo che quando ciò avviene, abbiamo la responsabilità di articolare questi concetti. Il progetto 2020 ha proprio questo obiettivo, ovvero capire come la sostenibilità ambientale, i diritti legati al lavoro e alla qualità della vita possano essere raccontate in un modo nuovo, meno serioso e meno pauperista: accettare e capire cos’è la sostenibilità e vestirla con un lavoro creativo in cui noi italiani possiamo essere i più bravi.
Uno dei grandi temi del 2020, hai detto, sarà la verità: in quali settore soprattutto, sarà indispensabile essere sinceri?
Nella comunicazione: occorre un nuovo modo di comunicare altrimenti rischiamo di andare a sbattere. Serve una risposta allo storytelling a cui siamo abituati e la vera fonte di questa richiesta di verità sono le relazioni personali. Ognuno di noi oggi sta ripulendo la sua comunità relazionale da tutti i contatti raccolti negli ultimi dieci anni con i social. Fino a oggi ci siamo divertiti, ma con cinquemila amici virtuali rischi di perdere quelli veri. Si innesca così un meccanismo di azione e reazione, tipico nella fisica delle relazioni e oggi siamo al punto di dire “meno ma meglio”, o “qualità e non quantità”. C’è bisogno di riportare tutto a una misura più umana, sono le persone che decidono alla fine e per farlo hanno bisogno di autenticità e verità da parte di aziende e multinazionali.
“Solo abbracciando il mondo lo si può risollevare, cogliendone il bello!” è la premessa attorno alla quale si sviluppa il tuo nuovo libro (Il bello del mondo) che riflette sulla globalizzazione attraverso due dimensioni, la circolazione locale e la respirazione globale. Vuoi spiegarci meglio cosa intendi?
L’idea parte da lontano, dal 2001, anno in cui scrissi “La strategia del colibrì”: con l’editore abbiamo deciso di riscriverlo alla luce del cambiamento avvenuto in diciotto anni. È ormai dimostrabile che i luoghi, come ognuno di noi, hanno un cuore e il suo battito è e sempre sarà locale. Nella distinzione tra locale e globale è necessario approfondire la differenza tra luogo e spazio, rilevanza e risonanza, estrazione del valore e trasformazione del talento, accettando l’idea che locale e globale non si contrappongano, poiché costituiscono i due capi della stessa matassa. Per sbrogliarla, è necessario ragionare sulle due dimensioni vitali dell’organismo, che metaforicamente alimentano anche il progetto: battito del cuore e ampiezza del respiro, circolazione locale e respirazione globale. Il bello del mondo si dipana allora tra la necessità del battito, che è sempre locale ed è conditio sine qua non per la nostra sopravvivenza nel mondo, e la sfida del respiro, che deve invece alimentarsi aprendosi all’esterno come dimensione altrettanto necessaria per abbracciare quello stesso mondo, per sentirsi parte di un unico grande progetto di vita che può essere perfezionato, armonizzato, regolato, alla ricerca di una condivisione globale.
“L’intelligenza umana non è riproducibile e il termine Intelligenza Artificiale è fuorviante” hai detto, e hai scritto un libro sul tema, “Futuro + Umano – Quello che l’AI non potrà mai darci”. Un concetto che condividiamo ma che ci sembra che a pochi sia chiaro finora: perché secondo te?
Non a tutti è chiaro quando e come sia stata inventata l’intelligenza artificiale, definizione introdotta esclusivamente per motivi di marketing: in quel percorso non c’è nulla di intelligenza e nulla di artificiale, ma ha funzionato talmente bene da far credere alle persone che verremo sostituiti dalle macchine, anche se ciò di fatto è impossibile. Non conosciamo il 100% del cervello e non possiamo quindi replicarlo. Algoritmi e machine learning sono strumenti potenti e possiamo utilizzarli, ma senza necessariamente mettere a dormire il nostro cervello, che ha come caratteristica meravigliosa quella di mettere in discussione le cose, attività che una macchina non potrà mai fare.
L’intelligenza umana parte dall’emozione non dalla ragione, e la ragione è quello che ci aiuta a strutturare ciò che avviene nel nostro cuore e nella nostra testa.
Non dobbiamo avere paura dell’AI e dobbiamo capire che è un tipo di intelligenza diversa dalla nostra, che ottimizza tre cose: la capacità di memoria, la computazione (assorbire informazioni) e la sintesi. A differenza degli esseri umani, la macchina non può farsi domande: soltanto l’uomo può farlo e ciò è fondamentale per immaginare nuovi scenari e costruire nuove realtà.
Il rischio dell’AI è squisitamente politico, non scientifico: è nelle mani di pochi, con un’intelligenza di pochi e con il rischio quindi di un futuro mal distribuito.
Cosa legge sul web Francesco Morace e cosa fa nel tempo libero?
Mia moglie dice che non faccio altro che leggere nella vita (ride). In rete leggo poco (preferisco di gran lunga leggere in analogico!), ma faccio molte ricerche, sfruttando al massimo tutte le potenzialità del web. Su internet cerco i gangli vitali del pensiero: la rete è per me una facilitatrice per individuare e seguire le connessioni e poi mi lascio guidare dall’intuizione. Non sono didascalico, mi lascio ispirare dal caso: la mia canzone preferita è “Ragazzo fortunato” di Jovanotti: penso di esserlo perché ci becco sempre.
Il mio tempo in rete è comunque minore rispetto a quello dedicato a leggere e scrivere: io penso mentre scrivo, non scrivo quello che penso.
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