Chi mi conosce da tempo sa che spesso quando si parla di armadi e vestiti dico che essi sopravviveranno anche a noi. Il che suona anche come una autocritica alla sorprendente capacità, senza distinzioni di sesso, di riempire i nostri armadi di vestiti, accessori, tovagliati ed altri textile design product che in una vita non riusciremo a consumare.
È la conseguenza della nostra semplice incapacità di sottrarci al meraviglioso incedere del Fashion system.
La filiera Tessile Abbigliamento Moda (TAM) è uno dei settori più strategici del Made in Italy: con più di 45.000 mila aziende che contano circa 398.000 addetti nel 2018 ha fatto registrare un fatturato di circa 55 miliardi di euro (30,9% dell’intero comparto TAM europeo), per la maggior parte (57,2%) derivanti da export (in particolar modo di prodotti ad alta gamma), detenendo il primato europeo in termini di valore aggiunto (Confindustria Moda, 2019).
Un po’ di anni fa il mondo del fashion ha iniziato ad interrogarsi sulla necessità di rivedere i propri modi di produrre dal punto di vista della sostenibilità dei processi e dei prodotti. Perché mai?
Semplice. Qualcuno ha iniziato a studiarne ed evidenziarne gli impatti: il crollo del Rana Plaza in Bangladesh, fabbrica-lager di abbigliamento, nell’aprile 2013 ha causato 1.138 morti. Lì venivano prodotti capi d’abbigliamento per molti brand occidentali con stipendi da fame e senza tutele sindacali. Il tragico evento ha generato scalpore in tutto il mondo, quindi piano piano questi numeri hanno iniziato a fare notizia.
Greanpeace è stata la prima che con il protocollo Detox, avviato nel 2011, ha raccolto adesioni da parte degli attori del mondo tessile sulla necessità di ridimensionare la chimica dai capi di abbigliamento. Per cui i primi impegni dei primi brand sono andati in quella direzione: aderire a Detox per ridurre gli impatti ambientali.
La questione però non si esauriva lì. Perché la produzione di prodotti tessili da migliorare sul piano ambientale non si consuma solo con un bagno ripulente a base di chimica.
La fase di processo: ecodesign nel fashion.
In fase di processo anche un attento ecodesign può ridurre scarti di lavorazione, che attendono un decreto ministeriale End of Waste in grado di perimetrarli in altro modo e facilitarne il loro reimpiego. Questo alleggerirebbe in grande misura gli oneri di chi produce e ridurrebbe anche consistenti quantità di rifiuti altrimenti difficili da riciclare.
L’ecodesign è necessario anche per impiegare componenti materiche meno frastagliate e facilmente scomponibili. Semplice da comprendere per noi che conosciamo le problematiche della separazione post consumo ma difficile da attuare per i fashion designer abituati ad accoppiare per esigenze stilistiche pallettes con viscose, sete con lane, gomme, e poliesteri, ecc.
Dalla fine degli anni ‘90, proprio il poliestere è diventata la fibra più usata. Infatti le fibre sintetiche sono economiche e versatili, consentono la produzione di tessuti a basso costo e il fast fashion ad esse ricorre.
Tuttavia ad onor del vero bisogna dire che quasi ogni giorno i media riportano notizie di brand che si impegnano nell’impiegare fibre riciclate (sintetiche e naturali) o provenienti da biomasse, compiendo sforzi di ecodesign. L’elenco di best practice è oramai immenso. E pensare che fino a 5 anni fa (ho iniziato a guardare questo mondo in controluce nel febbraio del 2016) erano molto scarse per quantità e qualità le esperienze virtuose.
Gli avanzi di magazzino nel tessile.
Un’altra criticità dei processi produttivi tocca poi il tema degli avanzi di magazzino e degli invenduti che spesso, per logiche industriali anche comprensibili, finiscono in discarica o inceneritori. Ad essi si aggiungono anche i resi dell’e-commerce.
La società americana Happy Returns, a cui si rivolgono i clienti insoddisfatti per mandare indietro gli acquisti, ha calcolato che negli Stati Uniti il valore dei resi sarebbe arrivato nel 2020 a 550 miliardi di dollari. E i beni più rifiutati sono proprio vestiti, scarpe e altri accessori di moda, restituiti oltre la metà delle volte.
Il governo francese è stato davvero tra i primi ad essersi posto tale problema con la legge anti-spreco del 2020 che obbliga alla donazione pro riutilizzo o al riciclo diverse categorie di invenduti.
In Italia esistono sartorie sociali capaci di trasformarli con modalità upcycling ma trattasi di esperienze quasi sempre artigianali che poco incidono sui volumi industriali. Tuttavia vanno incoraggiate e accresciute e alcuni brand ad esse ricorrono per ovviare a magazzini da gestire.
Cosa succede nella fase di consumo?
I materiali a base polimerica, come i comuni pile, generano rilasci di sostanze inquinanti (microplastiche in primis) durante i lavaggi industriali e domestici, che finiscono solitamente in mare. Il problema è stato più volte posto all’attenzione di media e comunità scientifica. A ciò si aggiunge la nostra innegabile capacità di accumulare e gettare tali beni o perché poco duraturi o perché la moda cambia.
Per cui un’educazione alla “gestione degli armadi” sarebbe salutare sia per adulti che per ragazzi proprio per aiutarci a riflettere prima di comprare nuovi vestiti. Sono in corso ancora troppo poche iniziative di questo genere. Le industrie di questo comparto possono fare molto di più in tale direzione.
E questo spunto ci porta all’ultimo step.
Cosa faccio del vestito che non uso più e di cui mi voglio disfare?
Oggi la raccolta differenziata degli abiti usata è ancora volontaria ma non per molto. Il nuovo D.lgs 152, modificato nel 2020 con il recepimento della direttiva del pacchetto sull’Economia Circolare, introduce l’obbligo di organizzarle dal 1 gennaio 2022. Questo è un compito di chi gestisce i servizi di igiene urbana sui territori affidandone poi l’intercettato (nella maggior parte dei casi) agli operatori dell’usato, oggi tra i pochi in grado di dare una seconda vita ai nostri vestiti rifiutati.
L’Italia arriva a raccogliere in modo differenziato circa 2,5 kg procapite (dato 2019) ma questa tipologia di rifiuti si aggira intorno ai 13-15 kg procapite all’anno.
La strada è lunga! Non molti poi sanno che ciò che si raccoglie viene sì in gran parte riutilizzato (come second hand) nel nostro paese o in altri anche fuori dall’UE, e solo una minima parte viene riciclata, il resto viene smaltito o incenerito.
Il riciclo del tessile.
Il riciclo del tessile è un altro anello debole. Si presenta di tre tipi: meccanico, fisico e chimico. Quello meccanico è un processo downcycling che agisce su fibre principalmente naturali (modello pratese). Il modello fisico agisce su fibre artificiali e sintetiche fino ad ottenere granuli da estrudere. Il chimico (più costoso) opera per dissoluzione, o modificazione chimica della materia o depolimerizzazione. Le esperienze degli ultimi due sono ancora embrionali e quindi tutt’altro che praticabili nell’immediato. Inoltre per queste procedure ciò che conta è il sorting iniziale, cioè la selezione e suddivisione in famiglie omogenee di provenienza materica.
Il riutilizzo è comunque un terreno di gioco guardato con sempre maggiore interesse dai brand che stanno avviando iniziative di reverse logistic per essere anche attori del second hand. Questo entra in competizione con gli operatori già attivi facenti capo o no agli Enti del Terzo Settore (ETS).
La responsabilità estesa del produttore.
In aiuto ad una suddivisione dei compiti tesa a gestire in modo più ordinato e armonioso l’intero ciclo di vita dei prodotti tessili, vi è la futura nascita di regimi di responsabilità estesa del produttore: la legge prima citata infatti li istituisce su istanza di parte.
Questo vuol dire che a fronte di un’istanza presentata al Ministero competente parte un iter legislativo per istituire regimi di responsabilità gestionale ed economico-finanziaria in capo ai produttori di questi beni. Essi saranno responsabili, per legge, dei costi del fine vita di tutto ciò che immettono al consumo. È una rivoluzione vera.
Quando tutto questo si concretizzerà l’intera filiera potrà dire di aver compiuto un robusto passo in avanti nella direzione delle proprie responsabilità CIRCOLARI.
Vuoi approfondire?
European Clothing Action Plan 2019
EEA – Textiles in Europe’s circular economy
Mac Arthur Foundation – A NEW TEXTILES ECONOMY: REDESIGNING FASHION’S FUTURE
Documento di posizionamento sulla transizione verso l’economia circolare nel settore Tessile – Abbigliamento – Moda del Gruppo di Lavoro 4 (GdL 4) “Sistemi di progettazione, produzione, distribuzione e consumo sostenibili e circolari” della Piattaforma Italian Circular Economy Stakeholder Platform (ICESP), gennaio 2020
Chi è Irene Ivoi? Conoscila nella nostra intervista qui.
Illustrazione di cover: Roberto Rubini