Al giorno d’oggi la sostenibilità è un fattore chiave che influenza le decisioni di acquisto dei consumatori e la loro fidelizzazione a un brand. Dallo studio di Deloitte “Il cittadino consapevole: il valore del trust nelle scelte di consumo sostenibile” (il quarto report dell’Osservatorio Deloitte sui trend di sostenibilità e innovazione), è infatti emerso che per il 71% dei cittadini la fiducia in un brand si consolida quando questo condivide pubblicamente i propri obiettivi ESG (Environmental, Social and Governance). Nei primi sei mesi del 2024 poco più della metà degli intervistati ha dichiarato di aver acquistato prodotti sostenibili e, rispetto all’anno precedente, la tendenza è in aumento del 75%.
A questi dati positivi che riguardano le attente abitudini dei consumatori non corrispondono però altrettanti dati positivi sulle aziende. Le imprese italiane sono ancora molto indietro sul fronte della sostenibilità: secondo ConsumerLab solo l’11.7% delle imprese pubblica un bilancio di sostenibilità, inoltre, il fenomeno del greenwashing risulta sempre più diffuso.
Del folklore vacuo della sostenibilità avevamo già parlato in passato con Irene Ivoi, ma scendiamo nel dettaglio di questa dinamica.
Che cos’è il greenwashing?
Secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani, il greenwashing è una
«strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo».
Valentina Furlanetto, nel suo “L’industria della carità” definisce il fenomeno come «una forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente»: in pratica, fare buon viso a cattivo gioco, e a rimetterci è il nostro pianeta.
Esiste una traduzione di “Greenwashing”?
Questo termine deriva da “whitewashing” (letteralmente “dare una mano di bianco”), concetto del mondo cinematografico che indicava l’abitudine a ricorrere ad attori caucasici per qualsiasi ruolo, anche per personaggi di altre etnie. In senso traslato, “greenwashing” indica l’uso di informazioni fuorvianti per mascherare comportamenti scorretti.
Chi ha inventato il termine “Greenwashing”?
Questo concetto inizia a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, dopo che l’ambientalista statunitense Jay Westerveld critica la pratica di un hotel dove aveva soggiornato. La struttura, infatti, invitava i clienti a riutilizzare gli asciugamani per ridurre l’impatto ambientale legato ai frequenti lavaggi, una pratica in realtà dettata solo da motivi economici in quanto l’hotel non era sensibile all’ecologia come voleva mostrare.
I rischi e i danni causati dal greenwashing
Le pratiche di greenwashing comportano vari rischi, sia per i brand, sia per i consumatori sia per il pianeta: vediamoli nel dettaglio.
- Rischi e danni per i brand:
> Perdita di credibilità e danno all’immagine: quando i consumatori scoprono di essere stati ingannati è molto difficile per un’azienda ripristinare la propria reputazione, con la conseguenza che il danno può essere superiore al beneficio che sperava di ottenere.
> Pagamento di sanzioni: se un’azione o un claim di un’azienda appaiono dubbi, è possibile che qualcuno faccia una segnalazione all’autorità locale per la protezione dei consumatori (es: Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – AGCM), che potrebbe avviare delle indagini. Nella peggiore delle ipotesi l’azienda potrebbe essere citata in giudizio per concorrenza sleale e pubblicità ingannevole. Il contenzioso è costoso, e solitamente a questi episodi viene data un’ampia copertura mediatica negativa.
- Rischi e danni per i consumatori:
> Investono dove non si dovrebbe, finanziando inconsapevolmente progetti e imprese che non apportano alcun beneficio all’ambiente.
- Rischi e danni per il pianeta:
> La tutela dell’ambiente passa in secondo piano: le aziende investono risorse nel costruirsi una falsa immagine “verde” anziché nel cercare di affrontare le sfide ambientali e intraprendere azioni concrete per ridurre il proprio impatto sul pianeta.
I 7 peccati capitali del Greenwashing
Nel 2007, nel tentativo di comprendere e descrivere la diffusione del greenwashing, TerraChoice (successivamente acquisita da UL) ha avviato uno studio sui claim più diffusi riportati sui prodotti presenti sugli scaffali della GDO.
A seguito dello studio sono stati elaborati i sette peccati del greenwashing, con l’obiettivo di aiutare i consumatori a identificare messaggi ingannevoli.
1. Hidden trade-off (omessa informazione)
Consiste nel fare leva su caratteristiche apparentemente sostenibili dei prodotti omettendo informazioni rilevanti sull’impatto ambientale di tali prodotti. La carta, ad esempio, non deve essere per forza preferibile solo perché proviene da una foresta gestita in modo sostenibile. È importante considerare anche gli altri aspetti rilevanti nel processo di produzione, come le emissioni di gas serra o l’uso di cloro nella sbiancatura.
2. No proof (mancanza di prove)
Si verifica quando un’azienda millanta caratteristiche green di determinati prodotti o della propria attività produttiva senza averne nessuna prova o certificazione. Esempi diffusi sono i fazzoletti o la carta igienica che dichiarano di contenere diverse percentuali di materiale riciclato senza fornire prove a supporto.
3. Vagueness (ambiguità)
Si verifica quando un’affermazione è talmente generica da risultare ambigua e fraintendibile dal consumatore. Alcuni esempi? “realizzato con metodi amici dell’ambiente”, “fatto come una volta”, “prodotto con ingredienti naturali” – arsenico, uranio, mercurio e formaldeide sono tutti presenti in natura, ma sono velenosi.
4. Worshiping false labels (adorazione di false etichette)
Si tratta di prodotti con etichette false che riportano simboli di certificazioni o patrocini che in realtà non hanno, o che addirittura non esistono.
5. Irrelevance (irrilevanza)
Si verifica ogni volta che un’affermazione ambientale può essere tecnicamente vera, ma non è rilevante o utile per i consumatori che cercano prodotti realmente ecologici. Un esempio comune è l’etichetta “senza CFC” (clorofluorocarburi): questa sostanza è già vietata a livello globale dal Protocollo di Montreal, l’affermazione risulta quindi superflua e poco significativa.
6. Lesser of two evils (minore dei due mali)
Si tratta dell’utilizzo di termini che potrebbero essere veri all’interno di una specifica categoria di prodotto, ma che distolgono l’attenzione dei consumatori dagli impatti ambientali complessivi della categoria stessa. Per esempio le diciture “sigarette biologiche” o “SUV a basso consumo di carburante” esprimono un miglioramento relativo, ma i prodotti appartengono comunque a categorie intrinsecamente problematiche per l’ambiente.
7. Fibbing (menzogna)
Questi casi rappresentano una grave forma di inganno perché dichiarano vantaggi ambientali inesistenti, compromettendo la fiducia dei consumatori e ostacolando la vera sostenibilità.
Esempi di aziende che operano in questo modo ce ne sono tanti, e ci abbiamo dedicato un articolo: puoi leggerlo qui.
Le altre facce del washing: quando la sostenibilità è solo marketing
La tecnica del “washing”, ovvero la messa in atto di comunicazioni ingannevoli da parte delle aziende per migliorare la loro immagine, non riguarda solo l’ambito della sostenibilità e dell’ecologia. Viene applicata anche in altri settori, prendendo il nome di pinkwashing, ranibow-washing, veganwahing.
- Il Rainbow-washing coinvolge lo sfruttamento dei diritti e delle cause legate alla comunità LGBTQ+. Hai presente quando un’azienda nel mese di maggio (dedicato al pride) cambia l’immagine profilo dei vari canali social in versione arcobaleno, professandosi inclusiva, ma in realtà di politiche aziendali inclusive non c’è neanche l’ombra? Ecco.
- Il pinkwashing ha l’obiettivo di promuovere l’azienda come sostenitrice dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment femminile. Alcune aziende per esempio hanno coinvolto imprenditrici donne in progetti dedicati allo sviluppo di un business da aspiranti imprenditrici, avendo in realtà dinamiche interne che impediscono alle donne di fare carriera e raggiungere posizioni di top management.
- Il veganwashing è una pratica simile al greenwashing, ma incentrata sul veganismo: in questo caso le aziende introducono un’alternativa vegetale nella loro offerta, cercando di accalappiarsi i consumatori più compassionevoli, senza però che il prodotto sia effettivamente vegano. Tipo Burger King, che offre un burger vegetale. Peccato che venga cotto sulla stessa griglia dei burger di carne, assorbendone gli oli e i grassi, e che venga condito con una maionese che contiene uova.
E come se non bastasse… arriva il greenhushing
Gli effetti negativi del greenwashing non finiscono qui: dalla diffusione di questo fenomeno è nato il paradosso del greenhusing. Si tratta di una pratica che spinge le aziende a sottovalutare, se non addirittura occultare, i propri sforzi per la sostenibilità, per timore di non soddisfare aspettative troppo elevate, o per paura di essere accusate di greenwashing.
Le conseguenze sono dannose, in quanto gli investitori interessati alla sostenibilità non considerano alcune realtà, e viene limitato l’accesso a capitali dedicati a finanze sostenibili.
Esistono però diverse accortezze che i consumatori possono tenere a mente per non essere ingannati: ecco il nostro vademecum per proteggersi dal greenwashing.
Conclusione
In un periodo storico segnato dalla crescente urgenza della crisi climatica, dai disastri ambientali e da tutti i danni che ne derivano, il greenwashing non risulta essere solo una strategia di marketing ingannevole, ma una vera e propria mancanza di responsabilità sociale e ambientale da parte delle aziende.
È inaccettabile che le aziende sfruttino il tema della sostenibilità come leva per guadagnare consensi, aumentare il numero di clienti ed espandere la propria quota di mercato. Sarebbe necessario un cambio di paradigma in cui al modello capitalista, basato su produzione e consumo, dove l’unico KPI che conta è il profitto, viene sostituito un modello di economia circolare, dove viene premiato l’impegno delle aziende nel limitare lo sfruttamento di risorse e l’impatto sull’ambiente.
Utopico? Forse. Ma alcune aziende, come Patagonia, lo stanno già facendo. In fondo si riconduce tutto a una scelta: comportarsi in modo etico o arricchirsi a scapito del pianeta?
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