Qui in Sottosopra Comunicazione ci occupiamo di comunicazione etica, accompagnando creativamente enti e aziende verso un approccio più sostenibile. Facciamo anche advocacy per la città delle persone e la ciclabilità, incoraggiando un cambiamento gentile di comportamenti e stile di vita. Quello che ci stupisce è che certi parametri di vivibilità urbana che in Europa sono dati per scontati, qui in Italia sembrano pura utopia. Perché una strada scolastica è la norma in tante capitali europee mentre da noi viene vista come un insulto alla libertà personale del cinquantenne medio col SUV?
L’abbiamo chiesto a Federico Parolotto, architetto, senior partner e CEO della milanese MIC-HUB, società di consulenza in pianificazione urbana e dei trasporti che dal 2009 collabora con aziende, istituzioni pubbliche e studi di progettazione in diversi paesi.
Parolotto l’anno scorso ha pubblicato per Quolibet “Muoversi in uno spazio stretto – Verso una nuova mobilità” e siccome noi siamo stanche di muoverci in uno spazio stretto, sia fisicamente per strada, che concettualmente contro la mentalità auto-centrica, l’abbiamo chiamato per fargli qualche domanda sulla transizione verso la città delle persone.
Si parla sempre più spesso di città da riconfigurare attorno alle persone e non alle auto. Cos’è una città per le persone?
Attualmente viviamo in città che sono state pensate per le auto. È una conseguenza della motorizzazione di massa, che ha preso il via verso la fine dell’800 in USA per arrivare in Europa intorno ai primi anni ’60 del ‘900. L’auto diventò la protagonista della città e l’urbanismo si muoveva di conseguenza. Ad esempio con l’apertura della prima linea della metropolitana di Milano si è offerto un mezzo di trasporto veloce e sicuro ai cittadini, ma si è anche lasciato tutto lo spazio di superficie a disposizione delle auto. [Un altro esempio è Piazzale Loreto, che è tutt’ora un incrocio congestionato praticamente innavigabile in sicurezza se non su un mezzo motorizzato, ndr].
Nel film “Ragazzo di campagna”, Renato Pozzetto arriva a Milano con il trattore, in un centro incredibilmente ancora aperto al traffico ed estremamente trafficato, dove non gli è impossibile abbandonare il mezzo e attraversare la piazza a piedi. Quella era l’idea di modernità degli anni ’80. Il benessere consisteva di fatto nel cedere tutto lo spazio disponibile alle automobili. Gli spostamenti a piedi e in bicicletta non venivano neanche considerati come modalità di trasporto nelle analisi dell’epoca. Negli anni ‘80 l’automobile era al centro della città, anche dal punto di vista valoriale e le conseguenze le abbiamo davanti agli occhi. In questo specifico momento storico, mettere al centro l’automobile è anacronistico. Per tornare alla tua domanda:
“Una città per le persone non è definita soltanto dalle modalità di trasporto disponibili: è una visione ampia e trasformativa della città, contemporanea e in linea con lo zeitgest.“
Oggi si parla molto più di spazio pubblico, che al momento non è utilizzato in modo equo. In che modo si riuscirà a ridistribuire lo spazio nelle nostre città?
Dipende dalla definizione che ci diamo di città. Partendo dal caso dell’area metropolitana di Milano, se la intendiamo come una megalopoli padana a densità variabile, le azioni da intraprendere per redistribuire lo spazio tra i suoi utilizzatori dipende dalla densità abitativa delle sue aree.
Dobbiamo distinguere tra città e hinterland.
L’AUTOMOBILE A MILANO:
L’auto all’interno della circonvallazione di Milano è completamente irrazionale, è un elemento stridente rispetto alla densità abitativa e ai mezzi di trasporto disponibili. Nella parte più densa della città, quella costruita prima degli anni ’60, l’auto è scomoda, figlia di un pensiero datato che ora sta apparendo in tutta la sua contraddizione. Oggi è palese che tutte le città ad alta densità dovranno rinunciare all’auto a favore di spazi di condivisione per la cittadinanza. It’s not a matter of if, but a matter of when. Alcune città hanno avviato questo processo decine di anni fa, altre ci stanno lavorando. È solo questione di tempo. A Milano, e in Italia in generale, siamo piuttosto indietro. A Milano abbiamo circa 500 auto ogni 1000 abitanti, senza contare i non residenti. Confrontando il tasso di motorizzazione per numero di abitanti, Torino, Milano e Roma per mille abitanti hanno più del doppio delle auto di Parigi, Londra ed Amsterdam.
L’AUTOMOBILE IN PROVINCIA
Se nelle parti interne delle città l’auto risulta assurda, appena si esce bisogna ammettere che la storia è diversa: cambiano le infrastrutture e le alternative a disposizione del cittadino e ci sono degli aspetti sociali legati all’automobile. L’auto non è solo un mezzo di trasporto scelto per necessità, è uno stile di vita, un’abitudine culturale, un elemento interconnesso, radicato e resistente. Nonostante l’emergenza climatica, immaginarsi la vita in provincia senz’auto è velleitario, improbabile e sbagliato.
“La rincorsa all’accelerazione, continua a sedurci ancora oggi. Il nostro continuo consumo di spazio attraverso la compressione del tempo non è più tollerabile”
Non si tratta quindi di abbracciare ciecamente un’ideologia. La narrazione anti-auto esiste dagli anni 60, ma non è cambiato molto. È evidente che sia necessario uscire dalla questione di principio e dalla teoria del “tutti in bici”. Bisogna fare studi di fattibilità e implementare soluzioni che siano realistiche differenziando gli approcci: in città ad alta densità di popolazione e infrastrutture si può puntare ad eliminare l’auto, mentre in provincia a contenerne l’uso.
Quali sono per te le città nel mondo da prendere ad esempio?
Come racconto nel mio libro, ci sono tre progetti emblematici.
Uno dei più significativi è il rifacimento di Trafalgar Square a Londra, che si configurava come uno spazio pubblico inaccessibile, una sorta di gigantesca rotatoria progettata negli anni Sessanta a favore della mobilità veicolare. La parte centrale della piazza, dove c’è la statua di Nelson, era del tutto separata e risultava irraggiungibile per chi era a piedi o in bicicletta. La riqualificazione ha messo al primo posto la vita pubblica, trasformando Trafalgar Square da luogo separato dalla città a spazio catalizzatore di flussi pedonali. Trafalgar Square rappresenta un ottimo esempio di distribuzione spaziale, dove lo spazio viene sottratto all’automobile e restituito alla vita cittadina.
Un altro esempio è il noto rifacimento di Times Square a New York e più in generale di Broadway. Questo progetto capovolge l’approccio tradizionale per cui le riconfigurazioni stradali dovevano creare più spazio per le auto. Qui sono gli spazi per l’auto a essere ridotti lasciando più spazio alle aree pedonali. Il progetto di Times Square ha progressivamente trasformato l’asse di Broadway in una strada a vocazione ciclo-pedonale.
E poi Parigi. Il progetto della Rive Droite lungo la Senna è diventato ormai un simbolo nella relazione tra mobilità e città. Fino a pochi anni fa c’era un’asse ad alto scorrimento che consentiva di attraversare in auto il centro della città lungo la Senna, ma rendeva difficile l’accesso al fiume. Nel 2016 la sindaca Anne Hidalgo ha proposto la chiusura definitiva della superstrada per trasfromare il lungo Senna in uno spazio pubblico pedonale. Con un netto miglioramento della qualità della vita urbana.
Che ripercussioni ha avuto la pedonalizzazione del lungo Senna sul traffico automobilistico?
Il traffico è molto più malleabile di quanto si pensi. Una volta rimossa la circolazione sulla sponda destra della Senna, il traffico si è distribuito nella rete urbana parigina già esistente. Alcuni pensavano che le strade di Parigi sarebbero collassate, ma non è stato così: i flussi veicolari della città si sono rimodellati senza significativi impatti sulla congestione stradale.
Qual è invece un passo falso che osservi più spesso nelle strategie di urbanizzazione nostrane o internazionali?
Una città si cambia con tante strategie, in primis smettendo di costruire altre strade. I dati ci dicono che costruire nuovi svincoli e bypass favorisce sì lo svuotamento del centro dalle auto ma anche l’allargamento della città verso l’esterno, dove l’unica infrastruttura di trasporto è appunto la tangenziale, Questo favorisce lo sviluppo di intere comunità dipendenti dall’uso dell’auto. È il fenomeno dello sprawl, che a causa della perdita della relazione di prossimità, contribuisce alla progressiva atomizzazione sociale. Serve invece rinforzare il trasporto pubblico di superficie, allargare la rete ciclopedolanale, introdurre il pagamento della sosta anche per i residenti.
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Torna tutto. ma allora perché è così difficile convincere la classe politica e l’opinione pubblica della necessità di questi interventi? Ok che stiamo chiedendo alle persone uno sforzo di immaginazione, ma i buoni esempi sono sotto gli occhi: torneremmo al Corso Vittorio Emanuele trafficato di Renato Pozzetto? Quello che vediamo all’estero nelle altre capitali europee non ci piace? Perché questo sforzo d’immaginazione è così faticoso? Quali sono le componenti della resistenza al cambiamento?
È una domanda complessa che richiede una risposta articolata:
1 – I progetti di mobilità sono difficili da implementare perché per i cittadini è difficile immaginarsi le trasformazioni. Tuttavia una volta modificati gli spazi la fazione critica tende a scomparire. Si pensi ad area C e alle piazze create eliminando i parcheggi con interventi di urbanismo tattico. I benefici sono immediatamente evidenti e fanno emergere consenso. La vera battaglia è generare consenso prima che queste novità vengano implementate.
2 – Più si invecchia più si resiste al cambiamento. Le abitudini consolidate e strutturate diventano difficilmente modificabili: i boomers sono i principali utilizzatori dell’automobile e con loro è difficile far passare il messaggio, se non con politiche di pricing punitive. La resistenza al cambiamento è dettata anche dal fatto che la classe politica e dirigenziale della città è boomer e si esprime quindi attraverso l’uso dell’auto. Il set valoriate della governance è ancorato a valori del passato, ma è solo questione di tempo.
3 – Tutti dobbiamo immaginarci di cambiare. Se dall’ufficio alla metro ci sono 25’ a piedi, dobbiamo iniziare a pensarli come un momento di esercizio fisico, non come una perdita di tempo. Dobbiamo tutti ripensare il nostro stile di vita. Serve accompagnare una riforma culturale e sociale. La nostra percezione delle distanze e del tempo è cambiata, ora ci sembra tutto tempo perso.
4 – Infine, il metodo di spostamento che si sceglie dipende dalla qualità delle opzioni. Se creo infrastrutture e percorsi sicuri, gli utenti li usano volentieri. Se un metodo di spostamento è, o appare, rischioso (come la situazione attuale a Milano, con tutte le segnalazioni di incidenti fatali) la gente cerca di evitarlo.
E qui arriviamo ad un punto cruciale, che è poi una nostra mission: Come portare le persone a immaginare quello che ancora non possono vedere? E cioè una città più verde, con spazi più condivisi tra chi si muove con mezzi diversi, più silenzio, ecc.?
Lavorando sulla comunicazione del trasporto pubblico, che è un brand! Come lo percepiscono i cittadini? Più ci si identifica con esso più sarà probabile che lo si prediliga come mezzo di trasporto. Il trasporto pubblico mette in comunicazione una comunità, ha un ruolo fondamentale nella nostra società e si merita una buona operazione di branding. Come nel caso della società dei trasporti cittadini Berlinesi, la BVG:
La BVG Berlinese ha intrapreso una grossa operazione di rebranding negli ultimi 7 anni, con l’obiettivo di fidelizzare gli utenti esistenti e incoraggiarne di nuovi. Il tono di voce delle campagne è quello del berlinese vecchia scuola, che lavora nell’amministrazione pubblica, parla solo tedesco e ha un’umorismo freddo e sarcastico. Una scommessa che ha pagato con una reach incredibile (alcuni video del canale YouTube hanno milioni di visualizzazioni) e con un sentiment nei confronti del brand che è migliorato sensibilmente, basti pensare all’eco che ha generato la campagna del 2019 sul genere pay gap, che in Germania è al 21%. Per questo nella giornata annuale contro il gender pay gap BVG ha abbassato le sue tariffe (anche su abbonamenti mensili ed annuali) del 21% per tutte le sue utenti donne.
Invece a Milano i tram sono spesso ricoperti di pubblicità che non permettono di guardare fuori… L’utente diventa estraneo alla sua città e il servizio pubblico diventa semplicemente un cartellone pubblicitario ambulante per fare cassa.
Sei positivo per il futuro?
Contestualmente alle plumbee previsioni climatiche a lungo termine, sì. Come dicevamo non è questione di “se” ma di “quando”. E poi il cambiamento radicale arriva da interventi che di per sé non sono affatto così radicali. Non stiamo parlando di vietare le auto ma di riposizionare attraversamenti pedonali, allungare le ciclabili, redistribuire lo spazio in modo efficace, coerente e democratico.
Speriamo. E speriamo nelle nuove generazioni, a cui già ora la patente non sembra interessare troppo – per lo meno ai giovani che risiedono in città.