Ultime novità in casa Spotify
Nei primi mesi del 2022 Spotify è stata al centro di un’accesa discussione da quando Neil Young ha eliminato i propri brani dalla piattaforma in polemica con il podcast no-vax di Joe Rogan. La risposta di Spotify è stata tiepida: ha aggiunto un disclaimer a tema COVID-19, ma ha mantenuto il podcast di Rogan (questo perché tra la piattaforma e Rogan c’è un accordo da 200 milioni di dollari per la pubblicazione di tutti i contenuti, passati, presenti e futuri, del controverso podcaster americano).
Nonostante gli scandali, la piattaforma di streaming si conferma tra le più utilizzate al mondo per ascoltare e scoprire nuova musica, e al primo posto per ascolto dei podcast. Da poco è anche possibile visualizzare i testi delle canzoni in tempo reale. Una funzionalità lanciata in collaborazione con un azienda italiana: la Musixmatch di Bologna che offre già i testi per 8 milioni di canzoni su Apple Music, Amazon Music, Shazam, Vevo e Facebook. Novità anche per gli advertisers che tra poco potranno usufruire dell’aggiunta di un tasto CTA quando passano le loro pubblicità in streaming.
La chiave del successo di Spotify rimane sicuramente la varietà delle sue playlist dinamiche e personalizzate create all’intersezione tra Intelligenza Artificiale (AI) e Machine Learning (ML). Ma come funzionano gli algoritmi di Spotify? Ci fanno davvero scoprire nuova musica o ci imprigionano nell’ennesima bolla digitale? Aiutano effettivamente gli artisti indie o ci fanno prediligere i cataloghi delle major?
Per capirlo abbiamo spulciato i grafici del centro di ricerca e sviluppo di Spotify, chiesto un parere al nostro musicologo di fiducia Federico Pucci e fatto due chiacchiere con un insider di Universal Music.
La centralità delle playlist Spotify nella fruizione musicale oggi
Partiamo con il distinguere tra tre tipi di playlist. Ci sono quelle generate dall’utente (compresa la propria libreria musicale, in senso ampio), quelle generate dall’algoritmo di Spotify e quelle create dalle major. Sia i dati di Spotify che la chiacchierata con il nostro insider in casa discografica ci indicano che gli utenti ascoltano principalmente la propria libreria e le proprie playlist. Ma sono le playlist autogenerate dall’algoritmo che aiutano l’utente a scoprire nuova musica e che possono portare alle stelle anche artisti minori. E non solo, l’algoritmo è in grado di predire, in base ai nostri comportamenti d’ascolto, se saremo più o meno inclini ad abbonarci alla piattaforma. Ma vediamo in dettaglio.
Quanto è grosso il rischio di chiedersi in una bolla musicale?
Ci siamo chieste se l’ecosistema di Spotify fosse simile a quello di Facebook e Instagram. Sui social, l’algoritmo tende inevitabilmente a chiuderci in una bolla di contenuti strettamente in linea con i nostri gusti, creando un effetto cassa di risonanza che ci isola invece che farci sentire più connessi. Nel settore musicale rischiamo quindi di finire ad ascoltare quasi sempre lo stesso genere? Non proprio. In primis perché Spotify ha un interesse economico nella diversificazione degli ascolti. I dati del centro di ricerca di Spotify indicano infatti che sono gli utenti con abitudini di ascolto più diversificate ad avere più di probabilità di convertire dal piano gratuito a quello premium (+25%), rispetto a chi presenta una minore diversità nel consumo musicale. La piattaforma ha quindi interesse a proporci nuova musica.
Come funziona il Machine Learning di Spotify
Per profilare gli utenti, Spotify utilizza un approccio multidisciplinare all’intersezione tra psicologia musicale, analisi comportamentale e apprendimento automatico. Ciò consente di creare un’esperienza personalizzata basata su dati, modelli, interazioni e feedback. Per ogni utente, l’algoritmo di Spotify crea più identità. Le preferenze d’ascolto di una persona variano infatti non solo per genere musicale, ma anche in base all’attività che sta svolgendo, all’ora del giorno, al mood. L’obiettivo del Machine Learning di Spotify è quindi quello di acquisire abbastanza dati per poter predire in maniera sfumata cosa ci piace ascoltare a seconda delle circostanze.
I principali modelli utilizzati sono:
– Modelli di filtro collaborativo, che analizzano sia il comportamento dell’utente che i comportamenti degli ascoltatori dal profilo simile
– Modelli di Natural Language Processing, che analizzano il testo delle canzoni
– Modelli audio, che analizzano le tracce (tempo, durata, ballabilità, etc)
E le playlist Spotify editoriali?
L’ultimo tassello di questo puzzle sono le playlist create dalle major. La nostra fonte in Universal ci ha spiegato che ogni casa discografica ha un team specializzato nella creazione di playlist editoriali. Si tratta di playlist create da profili musicali tematici, a prima vista non riconducibili alla major. Un progetto a metà tra la curatela e la creazione di community: per spingere le tracce dei propri artisti, anche minori, bypassando la selezione dell’algoritmo e riprendendosi in qualche modo un po’ più di visibilità. Come ci dice Federico Pucci “sicuramente oggi esce troppa musica, e quindi chi ha potere sulle playlist ha potere sul mercato. Alla fine, come si dice in questi casi, vince sempre il banco.”
È vero che sulle piattaforme ascoltiamo più musica vecchia che musica nuova?
Qualche settimana fa, ha fatto molto discutere un’analisi di Ted Gioia su The Atlantic che dichiarava che la “nuova musica è morta” perché i brani da catalogo rappresentano ormai il 70% del mercato musicale statunitense. Abbiamo chiesto a Federico Pucci se è veramente così e perché.
“Il punto di vista dell’articolo è interessante e a tratti condivisibile, ma ha basi poco scientifiche (cita iTunes che vale l’1,2% del mercato globale) arrivando a una conclusione drastica che non rispecchia la realtà attuale. Il “catalogo” nel gergo dell’industria musicale è tutto il prodotto discografico più vecchio di 18 mesi. E per quanto in classifica si trovino anche successi degli ultimi 2/3 anni, difficilmente si incontrano pezzi più vecchi di così.
Altro tema è quello delle major che sempre più spesso acquistano i cataloghi dei grandi artisti: si sono formate addirittura società finanziarie ad hoc che si occupano esclusivamente di questo tipo di compravendite. Chi investe in questi grandi corpora musicali lo fa sapendo che l’investimento verrà ripagato nel lungo periodo. Anche se si tratta di low-seller, i classici saranno sempre long-seller, e una hit inaspettata, un successo virale su TikTok, o meglio ancora un caso fortunato di sincronizzazione (quando la musica viene usata nei film o nelle serie) può trainare un nuovo interesse e nuovi ascolti. Questo significa che stiamo ascoltando più musica vecchia? No, solo che le major stanno investendo nei beni rifugio della musica.”
Cosa ci aspetta nel prossimo futuro?
Spotify dichiara di stare lavorando ad un modello dinamico di AI che possa predire l’evoluzione dei gusti musicali degli utenti. Le incursioni sempre più a gamba tesa dell’AI nel mondo musicale aprono le porte a scenari distopici. Nell’articolo di Dj Mag AI Futures: how artificial intelligence will change music ci si chiede se l’utilizzo massiccio dell’AI si tradurrà in un nuovo panorama armonioso per musicisti e fan, o se si tratti dell’inizio di una nuova guerra culturale a colpi di deepfake. Su The Verge, Casey Newton si interroga sul futuro 3.0 della musica: Is the music industry’s future on the blockchain? e su come vendere le royalties direttamente ai fan potrebbe rovesciare le etichette discografiche.
Volete sapere cosa ascoltiamo qui in Sottosopra? Scopri la playlist del nostro Codice Etico.
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