Il grande leitmotif dell’italiano che torna dalle ferie in Sud-est asiatico è lamentarsi di quanto sia sporca l’Asia.
Ma forse non tutti sanno che gran parte dei rifiuti che ingolfano fiumi, risaie e oceani asiatici sono di provenienza europea. Non perché i vacanzieri nostrani buttino le cartacce in spiaggia, ma perché l’Unione Europea è la principale esportatrice di rifiuti plastici: il 40% dell’export mondiale viene da casa nostra.
Perché i nostri rifiuti finiscono in Asia?
In una frase: perché ne produciamo troppi.
Secondo il Rapporto di Greenpeace sulla plastica (2022): “Il riciclo è una soluzione inefficace per una produzione fuori controllo”
A partire dagli anni Cinquanta la produzione di materie plastiche non ha mai rallentato, anzi, dal 2000 al 2015 è stato prodotto il 56% di tutta la plastica fabbricata nella storia umana (se ne stimavano 370 milioni di tonnellate complessive nel 2019). In termini di massa: più del doppio di quella di tutti gli organismi viventi del pianeta.
“Secondo le stime più accreditate, se la curva di crescita esponenziale dovesse seguire l’attuale traiettoria, i volumi prodotti ogni anno nel mondo raddoppierebbero entro il 2030-2035 per triplicare nel 2050, raggiungendo 1.100 milioni di tonnellate.”
Riciclo europeo, discariche asiatiche
Secondo i dati dell’ONU riportati da Nikkei Asia, i paesi del Sud-est asiatico ospitano meno del 9% della popolazione mondiale, ma tra il 2017 e il 2021 hanno ricevuto il 17% delle importazioni globali di rifiuti plastici.
Se fino al 2018 era la Cina la principale importatrice di rifiuti occidentali, da quando il governo di Pechino ha messo un freno, le importazioni di rifiuti plastici in SEA sono cresciute del 171%, raggiungendo 2,26 milioni di tonnellate.
Nel 2021, dei primi dieci grandi inquinatori degli oceani, sei erano paradisi dell’Asia sud orientale: Filippine, Malesia, Indonesia, Myanmar, Vietnam e Thailandia. Questi Paesi accettano carichi di plastica prodotta all’estero, pur avendo già problemi a gestire la propria, per interesse economico, ma senza l’infrastruttura gestionale e anticorruzione che assicuri lo smaltimento corretto di rifiuti spesso non riciclabili.
Alla luce di questi dati, viene da chiedersi quanta della percentuale di rifiuti che l’Unione Europa vanta come “riciclata” vada poi a finire sulle spiagge e nelle falde idriche di Paesi in via di sviluppo. Come la spiaggia di West Java (Indonesia) dove la Signora Otin vive da più di quarant’anni, che da paradisiaco porticciolo peschiero si è trasformato in una landa desolata completamente ricoperta di rifiuti.
È evidente come esportare rifiuti ritenuti troppo costosi o complicati da riciclare non equivale a smaltirli responsabilmente. Anzi, delega colpevolmente il problema a Paesi più poveri e inevitabilmente meno attrezzati per affrontarlo.
A queste problematiche si aggiungono l’inquinamento prodotto dalle enormi navi cargo che trasportano i rifiuti in giro per il globo e il traffico illegale, facilitato dal fatto che in molti Paesi i rifiuti siano materia amministrativa e non penale.
Il ruolo dell’Italia nello scenario internazionale dei rifiuti
Greenpeace riporta come nel 2019 l’Italia fosse all’undicesimo posto tra i maggiori esportatori di rifiuti plastici: 197mila tonnellate di rifiuti esportati che, se fino al 2018 erano destinati per il 42% alla Cina, dopo il blocco furono assorbiti da Malesia (+195% in un anno), Thailandia (+770%) e dalla più vicina Turchia (+191%).
Ma anche dal Vietnam, che riversa più di 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici in mare. Per arrivarci passano dal delta del Mekong, una delle più vaste risaie del mondo (circa 25 milioni di tonnellate di riso all’anno), oggi inquinato anche da contenitori di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti che avvelenano le risaie, rendendo necessario, paradossalmente, un aumento dell’uso di fertilizzanti e pesticidi per contrastare il calo di produttività del riso. Un circolo vizioso che culmina con la combustione dei contenitori dei pesticidi locali usati, con corrispondente esalazione di sostanze chimiche pericolose.
Insomma, non solo il SEA è indietro di decenni rispetto all’Occidente in termini di gestione dei propri rifiuti, ma si accolla pure quelli che nemmeno “l’evoluto” Occidente sa come smaltire.
Il traffico illegale di rifiuti di plastica
“Il settore dei rifiuti è considerato ad alto rischio di corruzione a causa della complessità della filiera, del basso rischio di essere scoperti e, in alcuni Paesi, di sanzioni trascurabili” si legge nel recente rapporto “Unwaste” un progetto triennale in collaborazione tra Unione Europea, l’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine) e l’UNEP (il programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), per contrastare il traffico di rifiuti tra l’UE e il Sud-Est asiatico.
Nel rapporto complementare “Turning the Tide A Look Into the European Union-to Southeast Asia Waste Trafficking Wave”, si legge invece che “degli 8 miliardi di tonnellate di rifiuti plastici generati in tutto il mondo prima del 2017, meno del 10% è stato riciclato, il 12% è stato incenerito e il resto è stato messo in discarica o disperso nell’ambiente.” Per questo, alcune stime sostengono che i mari del Pianeta di qui al 2050 conterranno più spazzatura che pesci.
Una situazione critica, per cui nel 2019 Greenpeace ha chiesto un divieto immediato di tutte le importazioni di rifiuti plastici, anche quelli destinati al “riciclaggio”, e ha chiesto a tutti i paesi dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) di vietare il movimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi.
Il trattato globale sulla plastica
A livello internazionale le cose hanno iniziato a smuoversi nel 2022, quando l’Assemblea dell’ONU per l’ambiente ha istituito un comitato intergovernativo di negoziazione (INC) per lavorare al trattato globale sulla plastica: un nuovo accordo globale giuridicamente vincolante che dovrebbe regolare tutto il ciclo di vita della materia, dalla progettazione allo smaltimento, con l’ambizione di ridurne drasticamente la produzione.
Il 23 aprile sono ripresi i negoziati per arrivare alla stesura definitiva del trattato (prevista per novembre 2024) ma la strada pare ancora lunga e impervia e la comunità ambientalista internazionale è delusa.
La bozza di trattato, buona fede e poco altro
Al quarto round di negoziazioni, tenutesi a Ottawa, la bozza di trattato sembra uscirne sempre più impoverita. Per quando riguarda la sezione relativa al colonialismo dei rifiuti:
“Ciascuna Parte non consentirà il movimento transfrontaliero di rifiuti plastici, se non ai fini della loro gestione sicura e rispettosa dell’ambiente, previo consenso informato dello Stato importatore. L’esportatore deve fornire informazioni complete sulla composizione dei rifiuti esportati, compreso il loro contenuto in polimeri, sostanze chimiche e plastica, e qualsiasi pericolo associato alla salute umana o all’ambiente, contrassegnare ed etichettare i rifiuti esportati, rispettare le norme internazionali generalmente accettate e riconosciute, le norme e pratiche per l’imballaggio, l’etichettatura e il trasporto. […] Ciascuna Parte dovrà [adottare misure efficaci per] prevenire ed eliminare il commercio illegale [e lo scarico di] [dei] rifiuti plastici.”
Praticamente una volta che lo stato importatore dà il consenso: vale tutto.
Molte raccomandazioni generiche, pochi vincoli e obblighi, nessuna menzione allo squilibrio di potere tra un Paese occidentale che esporta rifiuti per negligenza e uno in via di Sviluppo che li importa per sopravvivenza.
Chi non vuole un mondo con meno plastica
I risultati deludenti dell’assemblea sono stati influenzati dai Paesi che proteggono le rispettive industrie della plastica e dai lobbisti di settore. Il gruppo, che comprende Arabia Saudita, Russia e Cina, afferma che il trattato dovrebbe concentrarsi solo sul monitoraggio dei rifiuti plastici e non su tutto il loro ciclo di vita. Una posizione condivisa dall’industria petrolchimica.
Persino i Paesi più motivati, quelli riuniti nella High Ambition Coalition, alla prova dei fatti non hanno saputo far sentire la propria voce (o hanno scelto di non usarla).
Economia Circolare riporta come a Ottawa non ci siano stati progressi reali rispetto alla definizione di un tetto alla produzione, ai limiti al monouso, al bando per gli additivi pericolosi e soprattutto, nessuna menzione a dove trovare i finanziamenti per gestire la crisi globale della plastica. Come avvenuto per le COP sul clima, il tallone d’Achille delle trattative è spesso la fonte di finanziamento dei progetti.
Colonialismo dei rifiuti: eliminare il problema alla fonte
Quindi quali sono le prospettive, alla luce di Istituzioni internazionali messe in scacco dalle industrie plastiche e del petrolio? Lo abbiamo chiesto a Ottavia Belli, fondatrice di Sfusitalia (la mappa italiana dei negozi sfusi), formatrice ambientale e LinkedIn Top Voice Ambiente.
Com’è possibile che i consorzi italiani della plastica sostengano che in Italia siamo ottimi riciclatori se poi siamo tra i maggiori esportatori di rifiuti plastici?
Che l’Italia sia virtuosa nel riciclo degli imballaggi in plastica è un’illusione. Stando ai dati CONAI (il Consorzio Nazionale Imballaggi che si occupa di raccolta differenziata, riciclo e rivendita del materiale riciclato) la percentuale del riciclo plastica in Italia era al 48,6% nel 2022. Ma proprio nel ’22 l’Unione Europea ha imposto l’aggiornamento della normativa sul punto di calcolo della raccolta differenziata, che ora viene calcolata a valle dello smistamento in ricicleria, non a monte. È una differenza importante perché la plastica che noi italiani gettiamo nel sacco giallo non è automaticamente riciclabile: dall’imballaggio delle zucchine all’accendino, dalla gruccia alle pellicole: un gran mix di materiali, riciclabili e non. Da quando è entrata in vigore la nuova normativa europea, in Italia il tasso di plastica riciclata si è ridotto dell’8%.
I consorzi fanno il loro interesse, ma i report di Greenpeace parlano chiaro: solo nel 2021, l’Italia ha esportato oltre 290 mila tonnellate di rifiuti plastici, di cui 43 mila verso Paesi extra-europei. Nel 2022, questi ultimi sono aumentati ad oltre 55 mila tonnellate.
[N.d.R: L’Italia è il terzo paese per sversamenti di plastica nel Mediterraneo, e non solo: sono state trovate alte concentrazioni di microplastiche persino nei laghi. ]
Domanda da un milione di dollari, visto che il Global Plastics Treaty sembra sempre meno incisivo e soprattutto ancora lontano dall’essere ratificato: quali sono secondo te i frangenti più importanti su cui l’EU e l’Italia dovrebbero spingere per ridurre a monte la produzione di plastica?
La soluzione come al solito non è unica né uguale per tutti: servono soluzioni ad hoc a seconda dei territori e delle loro conformazioni geografiche, possibilità logistiche e disponibilità economiche. Detto questo il grosso dei rifiuti plastici (quasi il 40%) è costituito da imballaggi.
Quello su cui dovrebbero spingere l’Unione e il Paese è incentivare la presenza di prodotti sfusi nei negozi e nei supermercati; promuovere mercati locali a km zero; fare educazione rispetto alla scelta dei prodotti stagionali, che sono più sostenibili da vari punti di vista; promuovere il vuoto a rendere (il sistema di deposito cauzionale, N.d.R.)
E le associazioni ambientaliste e i consumatori cosa possono fare?
L’Italia è un Paese con più di 8000 km di coste. Le associazioni ambientaliste sul territorio fanno tanto, ma bisogna superare il paradigma del beach cleaning. Capisco la volontà di sensibilizzare, ma fare la pulizia delle spiagge senza fare prevenzione equivale letteralmente a scopare il mare. Per responsabilizzare veramente la popolazione serve far passare il messaggio che la vera differenza a livello individuale la fa la riduzione dei consumi, soprattutto dei prodotti imballati.
In questi termini che oneri dovrebbero avere le aziende e le istituzioni?
Le aziende devono investire nell’ecodesign: ripensare i prodotti di uso comune e ridurne gli imballaggi. Un esempio su tutti: i detergenti per la casa e per la persona sono fatti al’80% d’acqua, e quindi richiedono necessariamente un contenitore. Se le aziende investissero nel re-design di prodotti solidi, elimineremmo una gran quantità di imballaggi in plastica rigida.
In questo senso le istituzioni dovrebbero fare la loro parte insistendo su una responsabilità aziendale che copra tutto il ciclo di vita del prodotto, dall’ecodesign alla produzione di prodotti più durevoli fino alla responsabilità dello smaltimento, in modo da limitare la produzione di rifiuti che ha un costo altissimo, in tutti i sensi: economico, ambientale, sociale e sanitario.
Il motto delle 3R è fondamentale: riduci, riusa e ricicla, ma deve essere applicato in quest’ordine. Prevenire è meglio di riciclare.
Per approfondire:
- Archeoplastica – l’incredibile progetto di ricerca e collezionismo di rifiuti plastici trovati sulle spiagge italiane, risalenti anche agli anni ’60 e provenienti da tutto il bacino del Meditrraneo.
- Discariche circolari: Peccioli e gli altri esempi virtuosi italiani
- La nostra campagna per COMIECO, il consorzio degli imballaggi in carta
- Il problema del greenwashing