Il co-branding è una partnership strategica tra due aziende: una collaborazione che inizia in fase di sviluppo prodotto e si estende fino alla commercializzazione. L’ennesima tecnica di marketing per persuadere? Chissà, fatto sta che i prodotti co-branded sono ormai ovunque: dal nostro armadio (H&M e i designer di alta moda, per citarne una) fino all’alimentari di quartiere (pensiamo alle uova di Pasqua griffate). Questo perché il co branding è una strategia vecchia, ma efficace, che se sviluppata bene può essere applicabile sia alle grandi imprese che alle PMI.
Il principio alla base del co-branding è lo stesso che recitava un giovane Accorsi nell’epica campagna Motta del 1995: two is megli che uan.
Il co-branding è una strategia di marketing utile alle aziende che cercano di ampliare la propria base di clienti, il fatturato, la propria quota di mercato, la fedeltà dei clienti, rafforzare l’immagine del marchio, il valore percepito e risparmiare sui costi adv.
In una partnership di co-branding, le aziende uniscono risorse, creatività e base clienti per creare un prodotto ex-novo. Condividere lo sforzo di creazione e di lancio permette ai brand di ridurre i rischi individuali e, se le cose vanno come previsto, di ottenere visibilità nel bacino clienti dell’altro brand. Si tratta del cosiddetto effetto alone: una situazione win-win per le aziende.
Per avere successo, la collaborazione deve però partorire un prodotto originale, in edizione limitata e che offra valore aggiunto ai clienti di entrambi i brand. Non solo, i due marchi devono anche avere una cultura, valori e target simili. Come vedremo più avanti, una partnership con un’azienda controversa può risultare molto pericolosa.
Co-branding: cos’è?
Il co-branding è un’alleanza strategica tra due o più marchi che collaborano per creare un nuovo prodotto o servizio, combinando risorse, competenze e, soprattutto, la loro identità.
Questa partnership non si limita a mettere insieme i loghi su un prodotto: si tratta di una vera e propria sinergia che porta alla nascita di qualcosa di unico, che rappresenta il meglio di entrambi i mondi. Ogni marchio porta il suo valore distintivo e, insieme riescono a raggiungere un pubblico più ampio e diversificato, massimizzando l’effetto della collaborazione. In breve, il co-branding è la formula vincente per espandere la propria notorietà, la base clienti e la percezione del valore.
Quando nasce il co-branding?
Il co-branding non è un fenomeno recente, anzi, le sue origini risalgono agli anni ‘50, quando alcune aziende iniziarono a intuire i benefici delle collaborazioni strategiche per distinguersi in un mercato sempre più competitivo. Uno dei primi esempi fu quello tra Renault e la famosa azienda di pneumatici Michelin, che unirono le forze per migliorare la performance delle auto con pneumatici di alta qualità. È stato però a partire dagli anni ‘90 che il co-branding ha preso piede, diventando una delle strategie di marketing più utilizzate, con partnership in praticamente qualsiasi campo.
I diversi tipi di co-branding
Esistono molteplici forme di co-branding, ognuna con le sue caratteristiche e finalità specifiche. La scelta del tipo di partnership dipende dagli obiettivi che i brand vogliono raggiungere, dal pubblico di riferimento e dalla natura del prodotto o servizio. Analizzando queste forme di collaborazione, possiamo distinguere tra approcci più strategici, come il co-branding funzionale, oppure modalità più mirate a obiettivi commerciali immediati, come il co-branding esclusivo. Ecco quali sono le principali tipologie di co branding.
Co-branding strategico e tattico
Il co-branding strategico si basa su una visione a lungo termine. In questo caso, le aziende collaborano per costruire un legame profondo tra i loro marchi, puntando a una crescita costante e a benefici reciproci che durano nel tempo. Spesso, queste collaborazioni si concentrano su valori comuni, visioni condivise e un’integrazione significativa dei prodotti. Al contrario, il co-branding tattico è una collaborazione a breve termine, volta a cogliere opportunità di mercato immediate, come una promozione o una campagna limitata, per massimizzare i profitti nel minor tempo possibile.
Co-branding funzionale
Il co-branding funzionale si verifica quando due aziende si uniscono per creare un prodotto che offre un valore aggiunto tangibile, migliorando la funzionalità o la qualità dell’offerta. Un esempio classico è l’integrazione di tecnologie tra brand, come il co-branding tra Apple e Nike per dispositivi wearable o tra Intel e Microsoft per ottimizzare la performance dei computer. Il valore percepito dal consumatore si basa sulla sinergia tra i punti di forza dei marchi coinvolti.
Co-branding esclusivo o non esclusivo
Nel co-branding esclusivo, la partnership è limitata a una sola collaborazione tra i brand, che solitamente lanciano un prodotto unico in edizione limitata, rafforzando così il desiderio e l’esclusività agli occhi dei consumatori. Alcuni esempi sono le capsule collection nel mondo della moda, come le collaborazioni tra H&M e i grandi designer.
Al contrario, il co-branding non esclusivo permette ai brand di collaborare con più partner contemporaneamente o su prodotti diversi, mantenendo una maggiore flessibilità nelle strategie di marketing.
Innovation co-branding
Questa forma di co-branding si concentra sull’innovazione, unendo le competenze tecniche e creative di due aziende per creare un prodotto rivoluzionario. Spesso, queste collaborazioni si vedono in settori come la tecnologia, dove l’innovazione è fondamentale per mantenere la leadership di mercato. Un esempio? Le partnership tra Tesla e Panasonic, che hanno contribuito a innovare il campo delle batterie per veicoli elettrici, offrendo prodotti più efficienti e sostenibili.
Ingredient co-branding
L’ingredient co-branding è una strategia di marketing in cui un marchio viene integrato come componente di un altro prodotto per valorizzarlo e migliorarne il valore percepito dai consumatori. In questa collaborazione, l’azienda produttrice dell’elemento ottiene visibilità attraverso il prodotto finale, mentre il marchio principale beneficia della reputazione e della qualità associata a quello specifico componente. Un esempio classico è l’uso di processori Intel nei computer, con il famoso slogan “Intel Inside.” Questa tipologia di co-branding rafforza la percezione della qualità del prodotto finale, sfruttando la notorietà dell’azienda che fornisce l’elemento chiave.
Building co-branding
Il building co-branding consiste nel costruire un marchio attraverso collaborazioni che puntano a creare un’immagine distintiva e di valore nel lungo periodo. Si tratta di collaborazioni che vanno oltre il singolo prodotto e si concentrano sulla creazione di una reputazione condivisa. Questo tipo di co-branding può essere visto nelle partnership tra brand e organizzazioni che operano in settori come la sostenibilità, dove l’associazione a determinati valori rafforza l’identità di entrambi i marchi.
I contro del co-branding
Nonostante i numerosi vantaggi, il co-branding può comportare anche dei rischi. Una collaborazione mal gestita o tra brand con culture e obiettivi contrastanti può portare a un effetto boomerang, danneggiando l’immagine di entrambe le aziende. Inoltre, la divisione degli utili e il rischio di cannibalizzazione del mercato sono aspetti da considerare attentamente. Se un prodotto co-branded non riesce a convincere i consumatori, il fallimento sarà doppio, con danni alla reputazione e potenziali perdite economiche. Anche la condivisione delle risorse e dei dati può diventare una fonte di conflitto tra i partner, soprattutto se non si definiscono chiaramente i confini della collaborazione.
Perché un co-branding fatto bene è efficace?
L’intero è molto più che la somma delle sue singole parti. Se la base clienti conosce entrambi i brand, l’annuncio della collaborazione creerà immediatamente hype nella forma di conversazioni tra addetti ai lavori, interazioni social e conseguentemente brand awareness, acquisizione di nuovi clienti e fidelizzazione di quelli già affezionati.
Il co-branding può essere efficace anche per modificare il posizionamento di un marchio. È quello che succede quando i marchi d’alta moda collaborano con brand di streetwear, activewear e fast fashion. Le maison svecchiano la propria immagine, diventando accessibili ad un target più ampio, mentre i brand più sportivi o low cost acquistano un’aura di esclusività.
Ma le partnership più curiose e sfidanti sono forse quelle che uniscono brand che operano in settori diversi, pur condividendo una base valoriale. Vediamo alcuni esempi.
I nostri esempi di co-branding preferiti
C’era una volta il co-branding
Il co-branding non è certo una novità, neanche sul mercato italiano. Alcuni esempi vecchi di una ventina d’anni potrebbero essere la partnership tra McDonald’s e Smarties, con la creazione del dolcissimo McFlurry, che ha aperto la strada a collaborazioni con M&M’s, KitKat e Snickers. Oppure la collaborazione incrociata tra food & beverage e moda con le iconiche bottiglie in vetro di Coca Cola che dal 2003 sono state firmate da stilisti del calibro di Fiorucci, Missoni, Fendi, Versace fino alle ultime collezioni 2013-2015 con Marc Jacobs, Moschino e Trussardi.
Negli anni, anche acqua S.Pellegrino ha fatto firmare le sue bottiglie da case di moda dai valori affini, creando a partire dal 2010 delle edizioni limitate con etichette Bulgari e Missoni. Nello stesso periodo la maison del cioccolato di lusso Venchi ha realizzato una linea di cioccolatini chic in partnership con Armani. Mentre qualche anno dopo Magnum e Dolce e Gabbana, rispettivamente i cugini appariscenti della famiglia dei gelati e dell’alta moda crearono un dessert in edizione limitata per festeggiare i 25 anni di Magnum.
Un co branding che ha avuto particolare successo, in passato, è stato nel 2018 quello tra Kylie Jenner, già molto influente ai tempi nel mondo beauty & fashion, e Adidas, con il lancio delle Adidas Falcon, una linea di sneaker dal design vintage che richiamava lo stile degli anni ’90. La collaborazione ha beneficiato enormemente entrambe le parti perché, per Adidas, Kylie Jenner rappresentava un’opportunità di acchiappare un target giovane e attento ai fashion trends, facendo leva sull’enorme visibilità e sul seguito globale dell’influencer.
Per Kylie Jenner, invece, la partnership con Adidas ha consolidato la sua immagine di icona della moda, associandola a un brand sportivo prestigioso e rinomato per essere innovativo e al passo con i tempi. Questo co-branding è stato accompagnato da una campagna social molto potente, dove Kylie ha condiviso foto e video indossando le sneakers, contribuendo a renderle un must-have per la sua fanbase notoriamente molto reattiva.
Un altro esempio di co-branding recente è la collaborazione tra Nike e Apple per il lancio di una serie di prodotti wearable, tra cui l’Apple Watch Nike. Questa partnership ha unito il mondo del fitness con quello della tecnologia, offrendo agli utenti un prodotto all’avanguardia che combina la precisione della tecnologia Apple con l’affidabilità e il design sportivo di Nike.
Il co-branding che non ti aspetti
L’ultima wave in fatto di co-branding sembra quella di mettere insieme mele con patate, come diceva la mia insegnante di matematica quando sommavo unità di misura diverse.
Nel 2020 ha fatto parlare la scelta di Fendi di brandizzare una linea di pasta Rummo per usarlo come invito alla sua sfilata SS21. Ma per quanto possa sembrare bizzarra, la collab funzionò perché si fondava su valori comuni di artigianalità e Made in Italy.
Prima Fendi x Versace, poi Versace x Fendi: un all-star game della moda dove due delle maison più iconiche rivisitano i codici stilistici dell’alta moda. La collezione SS22 di FENDACE, un brand creato ad hoc, si chiama infatti “The Swap”, lo scambio, dove per la prima volta i due marchi si sono uniti in un’unica sfilata.
Gli apripista in questo senso erano stati Gucci e Balenciaga, con la compresenza nel fashion film “Aria” del 2021. Il film celebrava il centenario della maison italiana, che con quella spagnola condivide l’affiliazione. Il gruppo Kering, che dal 2020 naviga in acque piuttosto torbide, ci ha visto lungo e ha trovato un modo per unire le forze.
Nel 2022 il panorama italiano ha visto nascere una collaborazione che ha dell’incredibile, composta da un binomio di brand che distruggono i canoni comunicativi dei rispettivi mercati. Layla x Taffo è la sinergia tra make up e la nota casa funeraria. Entrambi hanno una strategia di comunicazione frizzante, disruptive e decisamente fuori dagli schemi, che ha fatto che sì che il mascara “The Longer, The Better” fosse un successo dal primo minuto. Vi basti sapere che il claim era “potrebbe essere l’ultimo mascara che proverai” e che il pack era una piccola bara in velluto: l’internet è impazzito. Un appunto da precisine? Il lancio poteva essere fatto ad Halloween e non a San Valentino, ma il prodotto è sold out da mesi, quindi poco male.
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Un altro esempio di co-branding sorprendente è quello tra IKEA e Adidas nel 2021. Le due aziende, apparentemente distanti per settori e target, hanno unito le forze per creare una linea home fitness, con mobili e accessori pensati per chi si allena a casa. La collezione “IKEA x Adidas” includeva tappetini per lo yoga, mobili multifunzionali e attrezzature per il fitness, combinando il design funzionale e accessibile di IKEA con l’esperienza sportiva di Adidas. Questa collaborazione, lanciata nel 2021, ha risposto perfettamente alle esigenze del mercato durante il periodo pandemico, quando l’home fitness era in grande crescita.
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Nemici, amici: insieme per il covid
Nel settembre del 2019, in Argentina McDonald’s stava raccogliendo fondi per il cancro infantile, donando i proventi di un giorno di vendita di Big Mac. Con una mossa lungimirante anche se a prima vista incredibile, Burger King scelse di non vendere Whopper quel giorno, chiamando la campagna “A Day Without Whopper” cogliendo con una sola zampata l’opportunità di fare una buona azione e racimolare un po’ di affetto dai propri clienti e da quelli del competitor.
Non capita tutti i giorni di vedere i brand di fast food (notoriamente iper competitivi nei paesi anglofoni) allearsi per un obiettivo comune. Ma durante la pandemia il senso di comunità dei lavoratori della ristorazione ebbe la meglio. Nel novembre 2020 sul feed Twitter di Burger King UK apparve un messaggio di solidarietà settoriale che sostanzialmente diceva “Ordinate anche da McDonald’s”. All’epoca la mission aziendale non era più vendere il maggior numero di panini ma conservare il maggior numero di posti di lavoro tra gli impiegati del settore ristorazione.
Quando il co-branding finisce male
Tutto molto bello, ma non potevamo non citarvi almeno un esempio di co-branding che non è andato come avrebbe dovuto. Prendiamo ad esempio la partnership decennale di Shell e Lego. Dagli anni ‘60 Shell ha brandizzato miliardi di mattoncini Lego, dalle auto da corsa alle pompe di benzina, grazie ad una partnership che sembrava perfettamente win-win: Shell lavorava sulla brand awareness del target bambini e genitori mentre Lego ci guadagnava in autenticità.
Ma il banco è saltato nel 2011, quando Greenpeace ha iniziato a problematizzare il fatto che i bambini giocassero con mattoncini firmati da una compagnia petrolifera che stava perforando l’Artico e che aveva una tradizione di pratiche ambientali piuttosto discutibili. Greenpeace uscì con una meravigliosa campagna d’animazione, che potete vedere qui sotto, e l’ondata d’indignazione pubblica che ne seguì portò le due aziende a separarsi ufficialmente nel 2014.
L’eterna forza del co-branding: quando due è davvero meglio di uno
In definitiva, il co-branding continua a dimostrarsi una strategia di marketing senza tempo, capace di rinnovarsi e adattarsi alle esigenze del mercato. La chiave del suo successo sta nella capacità di creare sinergie autentiche tra brand che condividono valori, target e visione, generando prodotti unici e desiderabili. Sia che si tratti di una collaborazione a lungo termine o di una campagna limitata, il co-branding offre un potenziale enorme per aumentare la visibilità, conquistare nuovi clienti e rafforzare la fedeltà. E quando è fatto bene, due è davvero “megli che one”.
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