Ok, è quasi ora di staccare e di ricaricarsi ognuno come meglio crede: bicicletta o divano in perfetta simbiosi con il ventilatore e un buon libro?
Qualche giorno fa abbiamo raggiunto al telefono Mariateresa Montaruli, autrice del libro Ho voluto la bicicletta e dello storico blog al femminile Ladra di biciclette. Era a Roma, sotto la triplice morsa del caldo, delle scadenze pre-estive e dei nipotini.
Le abbiamo chiesto di darci una mano a farvi sognare una vacanza speciale. E lei ha accettato con entusiasmo “prestandoci” un capitolo del suo libro uscito da pochi mesi. Difficile scegliere l’itinerario, meglio i panorami delle 5 Terre o i boschi della Val di Fiemme? L’ex binario della Spoleto-Norcia o l’infinito silenzio dell’Orientale Sarda?
Alla fine ha vinto l’orgoglio sardo, d’altro canto la rappresentanza isolana in Sottosopra è piuttosto consistente.
Ecco dunque come abbiamo pensato di far felici ciclisti e divanati: scegliendo una lettura che è un vero e proprio invito a viaggiare in bicicletta, fisicamente o con l’immaginazione, per scoprire itinerari incantevoli spesso poco conosciuti.
Ho voluto la bicicletta racconta storie, curiosità e consigli per chi è alle prime armi con un racconto emozionante e mai banale.
Ci è piaciuto perché è autentico, personale, femminile e ironico. È la storia di una donna che è partita da zero con una vecchia bicicletta da corsa abbandonata ed è arrivata a viaggiare in tutta Italia scoprendo una grande passione.
Ci è piaciuto perché vieni rapito dalla sua scrittura anche se non sei un ciclista.
Ci è piaciuta la curiosità dell’autrice, vero e proprio motore dei suoi racconti di viaggio, calati nell’anima del nostro territorio.
Con Mariateresa Montaruli abbiamo scelto di regalarvi questo scorcio del viaggio in Sardegna per augurarvi buone vacanze.
Poi vedete voi, se volete continuare a leggere a tu per tu col divano o saltare in sella e partire.
E naturalmente rimangono sempre validi i nostri consigli per un’estate italiana e low cost!
Mucche, fili d’angeli e infinito silenzio
Sui tornanti dell’Orientale Sarda
[da Ho voluto la bicicletta]
Per un attimo, per 180 chilometri o poco più, riuscii a dimenticare il mare. Un’operazione per niente facile in Sardegna. In quel giro in bicicletta spostai l’attenzione sul silenzio, sulla successione di curve, sui valloni di antica transumanza, sui mandorli che s’incontravano già fioriti in febbraio. Anche sulle pecore che apparivano all’improvviso, onde di lana compatte e fuggitive, dietro un tornante. Accadeva sul tratto di Orientale Sarda, la SS125, che da Dorgali muove verso sud, tra la Barbagia e l’Ogliastra. A bassissima densità di traffico, la strada nota per i suoi tornanti da mal d’auto è stata asfaltata nel 1928 nel Supramonte inciso da grotte, canyon e doline carsiche. Percorrerla in bicicletta da corsa era uno dei miei desideri da sempre. Sismicamente stabile, la più antica d’Italia, con 570 milioni di anni di storia geologica, la Sardegna mi ha fatto sempre l’effetto di un porto di quiete, una terra di cui il mio viaggiare per il mondo si è dovuta nutrire di tanto in tanto. Ritrovare quel radicamento in bicicletta, su un percorso ad anello che da Dorgali si spingeva verso Urzulei, i Monti del Gennargentu, e risaliva verso Orgosolo, Oliena e Galtellì, fu la sfida di quei giorni. Che Simone Scalas, amico e guida cicloturistica, vino buono in botte piccola, ironia e buon umore a non finire, raccolse con me.
Da Dorgali fino a Genna Croce, l’Orientale Sarda offre a ovest una bella vista delle creste calcaree assediate da lecci, terebinto e fillirea che paiono mordere la successione dei tornanti. C’è un piccolo belvedere all’altezza del Rifugio di Su Gorrupu da cui partirebbe la strada bianca per l’omonimo canyon, non percorribile in bici da strada. Questa è anche la vallata dove sono state ritrovate le prime tracce antropiche dell’isola.
La prima casa cantoniera che incontrammo si mostrò sbiadita e stropicciata. Passo Genna Silana, a 1.017 metri di altitudine, poco più a sud, è il punto più alto di questo tratto dell’Orientale Sarda. Ma in bicicletta non lo si sente: la salita è costante. Sul passo trovammo un baretto chiuso che Simone conosceva bene: nella bella stagione fungeva da punto di sosta per ciclisti e arrampicatori. La sua terrazza sarebbe stato un buon punto di osservazione del panorama. In questo territorio ruvido, per niente gentile, solo gli ovili con il tettuccio di ginepro, costruiti per fare il formaggio, ricordano che qui è penetrato l’uomo. Per il resto, tracce antropiche zero.
Volgendo lo sguardo a est, cominciai a scorgere il mare. La vicina Codula di Luna, il letto di un fiume ridotto a un solco di sassi, porterebbe a Cala Luna, nel Golfo di Orosei. Cala Mariolu e Cala Goloritzé, con i massi color borotalco che srotolano dalla falesia non erano a vista. Per raggiungerle ci sarebbero voluti una barca o un trekking tra corbezzoli e lecci secolari, su un sentiero di schegge calcaree.
A Genna Croce, dopo 26,3 chilometri, lasciammo l’Orientale Sarda. C’era ancora da pedalare. Il dislivello totale prevedeva 3.280 metri, ma con salite mediamente dolci. Le pendenze più forti, seriamente impegnative, si presentarono sui tornanti prima e dopo Talana, per una decina di chilometri, e sul passo di Correboi prima di Fonni, il paese più alto della Sardegna, in piena Barbagia.
Prima di Talana, dopo aver incontrato sugherete e mandorli in fiore che facevano da guardrail naturali, colsi ancora uno scorcio di mare più o meno all’altezza di Santa Maria Navarrese, il porticciolo con una chiesetta del Mille costruita con canne e ginepro. A 1.090 metri di altitudine, 3 chilometri dopo Talana, la vista del massiccio del Gennargentu, con le steppe e le sue cime stondate, fu di grande impatto. In bicicletta, l’incontro con la wilderness è immediato, non filtrato né intermediato da alcun finestrino. Ha una qualità densa che non fa sconti: ti arriva dritta all’anima. Davanti a me i lecci coabitavano con l’elicrisio e l’euforbia, i mufloni con le pecore e le mucche. Desolato e deliberatamente inaccessibile, il Gennargentu è la riserva di caccia di pochi. Ne aveva scritto anche D.H. Lawrence in Mare e Sardegna, dopo aver attraversato nel 1921 il cuore inviolato dell’isola sul trenino che caricava pastori e bisacce da Cagliari a Olbia: “piccole manciate di querce e castagni e di sugheri… con qualche mucca nera che cerca di scrutare verso di noi tra la sterpaglia di mirto verde e di corbezzoli”. Le mucche che io e Simone incontrammo alle pendici del Gennargentu avevano invece il mantello tigrato. Inamovibili, ignorarono del tutto le nostre maglie colorate e le ruote irrequiete.
A Fonni ci salutarono i primi murale. Mamoiada, con la vite del Cannonau che cresce felice sui terreni ventilati, è dove le fave lessate con il lardo accompagnano i balli intorno ai falò, nel Carnevale in cui sfilano, emblema della lotta tra la primavera e l’inverno, le maschere dei Mamuthones.
Dopo Orgosolo, paese di ex briganti e murale, la cittadina di Oliena, con le case un tempo intonacate di celeste, il cosiddetto “azzurro Oliena”, appariva assediata da mandorli e ulivi. Avevamo ormai percorso 137 chilometri. Insistetti per fermarmi dall’amica Giovanna Palimodde, fuori Oliena, nel suo albergo eccezionalmente solare, il Su Gologone, aperto nel 1966 come taverna di cucina tipica, ai piedi del Supramonte. Esausta ma felice, per cena assaggiai la zuppa di su filandeu, di tradizione barbaricina, una minestra di carne di pecora e pasta tirata così sottile che, nel brodo, si trasformava in capelli d’angelo o fili di Dio. Non ho più visto una pasta così.
La pedalata ricominciò più facile il giorno dopo. Mancavano 27 chilometri a Galtellì, borgo di straduzze acciottolate e cortili chiusi, con architravi di ginepro e soffitti di canna, una torre campanaria medievale e le memorie del passaggio di Grazia Deledda. Dopo 15 chilometri, io e Simone raggiungemmo Dorgali da cui eravamo partiti. Da qui, il mare, alla fine, irresistibile, chiamò. La cala di Osalla, a metà strada tra Orosei e Cala Gonone, un tempo raggiunta dai soli sterrati dei carbonai, mi accolse ampia e aperta al mare. Sembrava lo sbocco di un canyon rivestito di euforbia. Ricordo benissimo che era inverno e non faceva affatto caldo, ma il mare era di colore celeste intenso. Alla vista, quasi tiepido. Ci avvicinammo alla riva con le biciclette a mano. Esitai. Lo desiderai. Ma non ebbi il coraggio di tuffarmi. Era già l’epoca in cui non portavo gli slip sotto i pantaloncini da ciclista. Che errore.
Foto da ladradibiciclette.it