Ai consumatori piace pensare di salvare il pianeta con i propri acquisti. Secondo una ricerca di ConsumerLab, oltre la metà dei consumatori europei è disposto a pagare di più per un prodotto sostenibile. Per questo motivo, sempre la stessa ricerca evidenzia come il 20% delle pubblicità radio e tv punti sul marketing della sostenibilità, anche se in realtà le aziende che operano un cambiamento strutturale sono poche. In Italia, a seguito della nuova direttiva europea sul Bilancio di Sostenibilità aziendale, le aziende obbligate a presentarlo sono solo poche centinaia (diventeranno qualche migliaio all’entrata in vigore nel 2024 della nuova direttiva europea). Molte PMI scelgono comunque di presentarlo, ma i numeri, secondo ConsumerLab, restano bassi. I cosiddetti green claims sono un esempio di attivismo performativo: autoproclamarsi sensibili, attenti e attivi nei confronti delle tematiche ambientali attira i consumatori senza doversi impegnare in costosi interventi di efficientamento energetico. Del folklore vacuo della sostenibilità ne avevamo già parlato l’anno scorso con Irene Voi, ma andiamo nel dettaglio e nel tecnico.
Che cos’è il greenwashing? Una definizione
Valentina Furlanetto, nel suo “L’industria della carità – da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza” definisce il greenwashing come
“Una forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente”
In soldoni, una strategia di marketing che ricopre i propri prodotti e servizi di una patina green, per catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità. Nel greenwashing c’è malizia. La sensibilità ai temi ambientali non è che uno specchietto per le allodole, il cui scopo è distogliere l’attenzione da processi aziendali in realtà ben poco sostenibili.
Il termine nasce in USA tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 per descrivere il fenomeno per cui grandi aziende petrolifere cercarono di spacciarsi come ecologiste per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’inquinamento del loro settore. Ma anche l’abitudine di alcune catene alberghiere di invitare i propri clienti a limitare il consumo di asciugamani per una ragione apparentemente ecologica ma realisticamente solo economica (risparmio per l’albergo). La definizione di greenwashing nasce quindi dal neologismo americano che fonde green (ecologico) e whitewash (insabbiare, occultare).
Greenwashing e aziende
Qualche esempio di greenwashing
Ma come si manifesta il greenwashing nel 2022, in un mondo sempre più caldo e popolato da abitanti (si suppone) più istruiti e sensibili a riguardo? Purtroppo il fatto che il consumatore sia più sensibile alla sostenibilità non significa che sia in grado di distinguere quella reale da quella performativa.
Ecco alcuni esempi del greenswashing utilizzato dalle aziende:
- Definire un prodotto o un servizio “green” in maniera vaga o su una base molto limitata di dati. Es. definire un prodotto riciclabile senza un’affidabile certificazione terza.
- Utilizzare slogan e proclami ambientalisti che richiedono di essere interpretati con competenze tecniche non accessibili al consumatore finale.
- Utilizzare certificazioni contraffatte.
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Esagerare i numeri del proprio sforzo ecologico. Ad esempio, nel 2012 Acqua Sant’Anna fu multata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato per aver millantato che “650 milioni di bottiglie Sant’Anna Bio Bottle permettono un risparmio di 176.800 barili di petrolio” anche se il dato riportato era quello della totalità della produzione 2010, di cui le bottiglie “Bio Bottle” rappresentavano lo 0,2%.
- Inserire la sostenibilità nella propria mission aziendale senza supportare quest’affermazione con processi produttivi realmente ecofriendly o dati a supporto.
- Attuare cambiamenti superficiali spostando l’attenzione dai processi che hanno maggiore impatto ambientale. Ad esempio fornire a tutti i dipendenti una borraccia ricaricabile mentre l’azienda continua a mantenere una produzione inquinante o è parte di un settore per definizione poco sostenibile (ad esempio il fast fashion).
- Usare le percentuali a sproposito. Frasi come “questo prodotto è confezionato con un pack sostenibile al 30%” non sono verificabili né misurabili con dati univoci. Anche perché non ci si può definire sostenibili se si tralascia il 70% del pack. Ma anche utilizzare il 30% di materiali riciclati e poi produrre in Cina, non è sostenibile. Dichiarare invece che un pack è sostenibile al “100%” è sostanzialmente impossibile e inverificabile.
Greenwashing e marketing
Tutti sappiamo che ci sono sostanzialmente due modi di dire le bugie: mentire spudoratamente o omettere la verità. Anche il greenwashing può essere interpretato secondo questa dicotomia e tutti gli esempi di greenwashing appena elencati ricadono in una o nell’altra categoria. Spesso le aziende non stampano sulle etichette affermazioni platealmente false, ma usano l’impianto del marketing in maniera fuorviante. Per questo il tema del greenwashing è prima di tutto un problema di cultura d’impresa e di integrità aziendale. Il discorso ecologico può veramente essere parte della mission e della vision di un’azienda? E se sì, ci sono i mezzi e i fondi per implementare dei veri cambiamenti? Se entrambe le risposte sono negative utilizzare il green marketing è una pratica vacua e fraudolenta.
Il greenwashing è assimilabile al pinkwashing e al rainbowashing?
Greenwashing, pinkwashing e rainbowwahing sono tutte forme di attivismo performativo. I marchi usano l’impegno sociale per fare brand awareness, senza un sincero interesse per le cause ambientali o sociali.
Le aziende che praticano il Pinkwashing sfruttano la causa della violenza domestica sulle donne per posizionarsi come aziende femministe, nonostante lo scarso interesse per il welfare delle proprie lavoratrici. Così come non è raro che i brand di moda si approprino di stilemi e lessico della lotta LGBTQA+ a scopo di posizionamento, come approfondisce in un interessante articolo sul Tascabile Alessandra Cane: “Svuotate, quindi, del loro significato politico, le lotte di liberazione devono diventare brand, slogan, loghi dai colori sgargianti e dalle grafiche accattivanti adatte ai meme, alle infografiche e alla condivisione sui social network.”
La tendenza alla brand awareness di facciata si denota anche nella povertà di contenuti dei piani editoriali social di certe aziende che tutt’ora credono che fare social media marketing sia creare un post per ogni “giornata nazionale del” presente sul calendario. Poteva funzionare su Facebook nel 2008, ora lo shitstorm è (giustamente) dietro l’angolo.
Il greenwashing in Italia
Cosa dice la legge italiana sul greenwashing
Le associazioni consumatori e lo IAP (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria) lavorano a tutela del pubblico affinché la comunicazione commerciale in Italia sia “onesta, veritiera e corretta”. A questi si aggiunge l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, che vigila e reprime la pubblicità ingannevole sanzionando le aziende che lo praticano.
Dal 2014 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato considera il greenwashing in Italia pubblicità ingannevole. In passato sono state emesse diverse sentenze di condanna per alcune aziende che facevano uso del greenwashing, come la Snam con il suo slogan “Il metano è natura” del 1996 (visual pazzeschi però) oppure San Benedetto (multata nel 2010 e recidiva nel 2013 per “pratiche commerciali scorrette“) , Ferrarelle (30k di multa nel 2012 per prodotto che millantava “impatto zero”), ma dal 2014, nel Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, lo IAP affermava per la prima volta che “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. Una norma che impone criteri di trasparenza e standard di correttezza nell’ambito della comunicazione, introducendo il vincolo di verificabilità scientifica delle dichiarazioni.
Nel 2021 la Commissione europea e le autorità nazionali di tutela dei consumatori hanno condotto un’indagine approfondita sulla pratica del Greenwashing. Nel 50% dei casi le aziende non forniscono ai consumatori informazioni e dati sufficienti per valutare la veridicità delle affermazioni. Nel 37% dei casi queste affermazione risultano vaghe e generiche e nel 59% prive di prove a sostegno. Complessivamente, nel 42% dei casi le Autorità hanno individuato pratiche commerciali sleali.
Consigli sul greenwashing: come riconoscerlo e tutelarsi
Alcuni termini come “biologico” hanno definizioni legali e requisiti specifici per l’uso. Per questo devono sempre essere accompagnati da una certificazione. Al contrario, parole più generiche come “naturale”, “sostenibile” o “ecofriendly”, “green”, “eco” o “verde” sono essenzialmente prive di significato. Non essendo soggette a certificazione, possono essere utilizzate a piacere, cosa che spesso accade a sproposito.
Per tutelarsi, i consumatori possono controllare la presenza di certificazioni ambientali, come gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di vari parametri) e ISO 140001, ma anche il GRS, ovvero Global Recycled Standard per quanto riguarda chi si occupa di materiali riciclati.
Esistono poi una serie di certificazioni ambientali di prodotto (etichette ambientali di tipo I,II,III) e di processo (ISO 14001; EMAS) in grado di contrastare il fenomeno del greenwashing. Puoi approfondire qui e qui.
Oltre a controllare la presenza di certificazioni è quindi utile munirsi di spirito critico e di osservazione. Essere un consumatore consapevole aiuta a non cadere nelle trappole: importante leggere le etichette, diffidare di termini generici come “green” o “ecofriendly” e informarsi sulla reputazione dell’azienda. Online ci sono vari siti di consumatori che denunciano il greenwashing e aiutano a scegliere dove acquistare consapevolmente, come Il Fatto Alimentare, The sins of Greenwashing, Good On You o Il Vestito Verde che aiutano ad evitare il greenswashing nella moda.
Il Marketing sostenibile può esistere davvero?
Sottosopra Comunicazione di occupa di comunicazione sostenibile fin dalla sua nascita. Per questo, qualche mese fa abbiamo analizzato nel dettaglio i dati sull’efficacia della comunicazione green e abbiamo stilato una lista di sette consigli per brand sostenibili che vogliono instillare fiducia e proattività nei propri clienti.
In conclusione
Prodotti riciclati, imballaggi meno ingombrati e altre velleità ambientaliste delle aziende, possono indurci a pensare di avere un minore impatto complessivo. Tuttavia, alcuni prodotti sono intrinsecamente insostenibili e continuare a sceglierli prevede un grosso compromesso che ognuno deve affrontare personalmente.
La carne e i latticini sono tra i prodotti più impattanti a livello ambientale, anche se comprati sfusi. Possiamo farne a meno? Oppure possiamo compensare il nostro peccato di gola in altro modo?
Il fast fashion è il male, lo sappiamo tutti, ma in tempi di crisi è difficile sottrarsi alla convenienza di brand come Zara o H&M. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una notevole riduzione del nostro potere di acquisto e purtroppo siamo stati abituati a prezzi che nascondono sfruttamento e ingiustizie sociali. Possiamo scegliere di comprare meno e meglio?
Se una soluzione non esiste, qui da Sottosopra abbiamo un mantra che ci aiuta a orientarci in fatto di compromessi: RIDUCI, RIUSA, RICICLA. Le “tre R” sono scelte sostanziali e valoriali. Sono il nostro timone quando facciamo fatica a comprare solo il necessario, quando rischiamo di cedere all’accumulazione. Ma anche se la responsabilità del compromesso ricade su ognuno di noi, le nostre scelte individuali contano relativamente nel grande schema delle cose. È arrivato il momento di fare pressione su chi ha potere sulle scelte collettive.
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