Neuromarketing: ne avevate già sentito parlare? No perché qui, seppure chi scrive sia laureata in psicologia e lavori nel marketing da un discreto numero di anni, il primo pensiero all’incontro con questa parola è andato subito alla psicofregna di Michela Giraud: inquietante, intrigante e misteriosa al tempo stesso. Il neuromarketing studia il cervello per prevedere e potenzialmente modificare il processo decisionale e il comportamento del consumatore: ovvero quando la psicologia della persuasione 2.0 incontra la ricerca di mercato sotto steroidi.
Le basi scientifiche del neuromarketing
La base teorica è quella delle neuroscienze del consumatore, che con una serie di studi accademici hanno dimostrato che i dati raccolti con le risonanze magnetiche al cervello possono predire il successo di un prodotto più di quanto non riescano a farlo le normali ricerche di mercato basate sui focus groups. Misurando tramite fMRI l’attività cerebrale durante l’ascolto di musica, si è dimostrato che esiste una correlazione significativa tra l’attività cerebrale dei soggetti osservati e la popolarità futura di una canzone (misurata con i dati di vendita dei tre anni successivi). Nessuna correlazione invece tra le risposte del focus group sul gradimento a seguito dell’ascolto e i dati di vendita: le risposte non riuscivano a prevedere le vendite, l’attività cerebrale sì. Com’è facilmente intuibile, per essere fatto bene, il neuromarketing richiede l’intervento di neuroscienziati e l’accesso a laboratori e costosi macchinari di neuroimaging. Ça va sans dire che per implementare una ricerca del genere serve un budget spaziale, decisamente alla portata di poche, grandi aziende. Ma il settore comprende anche strumenti di ricerca relativamente più accessibili come il tracciamento oculare e il riconoscimento delle espressioni facciali.
Tra dilemmi etici e incubi distopici
Se state iniziando a percepire un leggero senso di inquietudine, è giustificato: il neuromarketing presenta dei notevoli problemi etici. Quest’interessante articolo dell’Harvard Business Review evidenzia come in futuro le neuroscienze potrebbero essere utilizzate per influenzare il comportamento dei consumatori non solo con una migliore segmentazione del target ma anche con manipolazioni ormonali, inibizioni neurali temporanee e condizionamento indiretto nel sonno, anche noto come sleep nudging. A proposito di quest’ultimo, The Hustle spiega come il brand di bibite americano Coors abbia effettuato un esperimento provando ad indurre sogni brandizzati nei soggetti partecipanti. Così come Microsoft ha testato un metodo per far sognare ai gamer professionisti i loro videogiochi Xbox preferiti, PlayStation ha lanciato un gioco che dovrebbe indurre sogni a tema Tetris, e Burger King ad Halloween proponeva un panino “clinicamente testato” per indurre gli incubi. E se tutto questo non fosse già abbastanza inquietante, l’articolo sostiene che diverse compagnie aeree si stiano interessando a progetti di incubazione dei sogni. Inception, eccoci qui, peccato senza Leo. Un futuro dispotico ma non troppo lontano se pensiamo che le nostre case sono già abitate da speaker intelligenti, come Alexa e Google Nest, che potrebbero essere utilizzati dai brand per sponsorizzare prodotti durante il sonno. Si dice che la tecnologia per farlo sia quasi pronta, e non è difficile crederci sapendo che Google Nest può già registrare la respirazione durante il sonno e rilevare la tosse e il russare. Ma senza proiettarci troppo in là, i social network hanno già dei neuroscienziati nei loro team e ci ricordiamo tutti cos’è successo nel 2018 con lo scandalo di Cambridge Analytica.
Neuromarketing per le PMI?
Ma senza arrivare alle neuroscienze e agli strumenti di neuroimaging, anche le piccole e medie imprese possono fare ricorso agli assunti della psicologia per aumentare le vendite, creare brand awareness e posizionare il marchio nella mente del consumatore associandolo a determinati valori. Da sempre la psicologia della persuasione costituisce la base teorica del marketing e lo fa sfruttando i bias cognitivi. I bias cognitivi sono delle scorciatoie di ragionamento, delle lenti attraverso le quali interpretiamo il nostro ambiente, emettiamo dei giudizi e prendiamo delle decisioni. Si tratta di scorciatoie di pensiero tendenzialmente funzionali, che il nostro cervello ha sviluppato durante l’evoluzione per velocizzare la nostra capacità di valutare una situazione e prendere decisioni in maniera efficiente. Tuttavia, utilizzare queste scorciatoie porta inevitabilmente a delle approssimazioni, lasciando spazio alle logiche pubblicitarie, che possono insinuarsi in questi errori percettivi. Conoscere alcune di queste scorciatoie e sfruttarle a proprio favore è una una tecnica base del marketing, a portata delle grandi aziende come delle piccole imprese. Per questo abbiamo selezionato 10 bias cognitivi utili al marketing e li abbiamo applicati a delle situazioni reali.
I principali bias cognitivi utili al marketing
Avversione alla perdita
Questo bias è caratterizzato dalla tendenza a valutare come più gravi le possibili perdite rispetto ai guadagni potenziali. La strategia del brand in questo caso è convincere il consumatore che non acquistare il prodotto causerà più perdite di quanto il mancato acquisto non generi risparmio. Le persone sono più predisposte a evitare una perdita piuttosto che rischiare per guadare un importo simile. Strategicamente questo bias viene sfruttato con le offerte a tempo limitato (“Se non compro questo prodotto a 299€ adesso, finirò per acquistarlo tra 2 mesi a 499€” ), mettendo un countdown nella pagina d’acquisto o nella landing page.
Choice-supportive bias
Quando le persone prendono decisioni in maniera impulsiva, guidati dalle emozioni, poi cercano di giustificarle razionalizzandole. Nel mondo delle vendite questo si traduce nella razionalizzazione post-acquisto. Una dinamica che influisce anche sulle scelte di acquisto future, innescando la fidelizzazione al prodotto/servizio. Si può cavalcare questo bias assicurandosi di avere una strategia di follow-up alla vendita, ad esempio con una campagna di email marketing che preveda contenuti di approfondimento su come sfruttare a pieno le potenzialità del prodotto/servizio acquistato, supporto al cliente e infine up-selling.
Anchoring bias
Il bias di ancoraggio è legato a come l’occhio analizza l’ambiente circostante e a come il cervello memorizza gli input che gli vengono sottoposti. Quando osserviamo una serie di oggetti, tenderemo a ricordare con più chiarezza il primo che abbiamo notato. Si tratta di un bias molto utile a chi si occupa di product display nei punti vendita. È per questo motivo che i ripiani del supermercato non valgono tutti allo stesso modo e che esiste un florido mercato di espositori e packaging creativo.
Affection effect
Tendiamo ad investire alcuni oggetti di una connotazione affettiva che può alterare il nostro processo decisionale razionale. Per i marketer: falli innamorare del tuo brand e difficilmente andranno alla concorrenza. La verità è che siamo delle menti fragili, ci affezioniamo perfino ad una specifica marca di dentifricio, se è la stessa che comprava nostra nonna. Oltre all’effetto nostalgia, i brand possono sfruttare questo bias creando delle offerte volte alla fidelizzazione del cliente. Più spesso il consumatore compra il tuo prodotto, meno sarà invogliato cercare alternative.
Confirmation bias
Si tratta di una tendenza che induce gli individui a preferire le informazioni che confermano le loro idee e a evitare quelle che le mettono in discussione. Invece di cercare di far cambiare idea al consumatore, è molto più facile supportare e facilitare quelle hanno già. Lo fanno ad esempio i supermercati, che tramite l’analisi dei comportamenti d’acquisto (tramite le carte fedeltà) propongono sconti mirati ai prodotti che il cliente ha già dimostrato di apprezzare.
Effetto Carrozzone
I prodotti più popolari e più recensiti sono statisticamente i più acquistati. Questo perché l’effetto carrozzone crea l’illusione che un prodotto popolare sia automaticamente di qualità superiore rispetto a uno meno noto. Un modo per sfruttare questo effetto è creare contenuti pubblicitari incentrati sulle vendite elevate del prodotto, sui testimonial che lo hanno scelto e sulle review positive.
Bias del rischio zero
Per quanto possiamo essere persone adrenaliniche, quando si tratta di acquisti tenderemo sempre verso la soluzione a rischio zero, anche se si tratta di un’illusione commerciale. Comprare a rischio zero significa usufruire di campioni omaggio e periodi di prova gratuita. Per questo motivo la quasi totalità dei servizi online in abbonamento prevede un periodo di prova gratuita che tendenzialmente si converte automaticamente in abbonamento a pagamento.
Effetto di semplice esposizione
L’esposizione ripetuta ad uno stimolo genera famigliarità. La famigliarità modifica l’atteggiamento verso lo stimolo, che assume la forma di preferenza o affetto. Per questo motivo è bene che una pubblicità venga vista più volte, sia che si tratti di una campagna OOH o digitale. È la reiterazione che scatena il ricordo di marca, ovviamente a patto che la creatività sia all’altezza.
Avversione agli estremi ed effetto compromesso
Secondo Simonson e Tversky, l’effetto compromesso si verifica quando i consumatori prediligono un prodotto “medio”, in linea con la teoria dell’avversione agli estremi. È per questo motivo che è buona pratica fare sempre tre proposte al cliente: una base, una standard e una premium. Statisticamente la maggior parte delle persone sceglierà l’offerta che sta nel mezzo, per paura di non avere abbastanza benefit con la scelta base o di esagerare con la spesa con quella premium.
Effetto IKEA
Le persone tendono a dare più valore a un prodotto quando sono state coinvolte nella sua creazione, anche se inizialmente non sembravano interessate a tale opportunità. Si chiama “Effetto IKEA”, per ovvi motivi. Tutti abbiamo avuto esperienza della scarica di endorfine e orgoglio scaturita dall’aver correttamente montato una Billy base in sole 3h e mezza. Quest’effetto ha una chiara applicazione nel marketing: quando un prodotto o servizio è personalizzabile è più probabile che verrà acquistato.
Per una lista più completa di bias e una bibliografia scientifica su di essi vi rimandiamo al sito economiacomportamentale.it.
Di bias cognitivi abbiamo parlato anche in relazione al nudge con Irene Ivoi in questo articolo che suggerisce come aiutare le persone a cambiare le loro abitudini nella vita quotidiana in città.
Per una lettura più divulgativa: Thinking Fast and Slow di Daniel Kahneman e The Art of Thinking Clearly di Rolf Dobelli.
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