Se anche solo una volta hai pensato che basta, non ne puoi più del tuo lavoro, probabilmente l’algoritmo del tuo social preferito ha iniziato a mostrarti contenuti di persone che ti spiegano come mollare-tutto-per-dedicarti-finalmente-a-quello-che-ami™️. Vendere corsi per perseguire un lifestyle simile al proprio è solo uno dei mezzi di monetizzazione della creator economy. Un settore che solo nel 2021 ha ricevuto circa 1,3 miliardi di dollari in investimenti, secondo uno studio di Influencer Marketing Hub.
Influencers, content creators e curators – cosa cambia?
La figura dell’influencer è emersa negli anni ’10 sui social media carichi di immagini, come Instagram, dove la strategia vincente era forgiare un’immagine di se stessi il più curata e raffinata possibile. Ormai però si tratta di una figura inflazionata e connotata per lo più negativamente: selfie modificati, didascalie insulse, aspirazioni vacue, sponsorizzazioni non segnalate. Di conseguenza sulle piattaforme social si usa sempre più spesso “creator”, un termine che profuma di autenticità ed evoca un Internet fatto di artigiani del digitale. Sulle differenze semantiche non c’è un’opzione univoca: l’influencer è forse un/a modella 2.0 che presta la sua immagine ai brand? Mentre il/la creator è in primis qualcuno che produce un contenuto mediatico (post, video, podcast, newsletter, etc) e che solo dopo l’eventuale successo con il pubblico può venire contatto/a da brand? Tutti gli influencers sono creators ma non tutti i creators son influencers? I confini delle definizioni sono labili, ma il gigantesco ombrello della creator economy abbraccia figure che vanno dall’imperatrice della moda Chiara Ferragni al giornalista Francesco Costa con la sua newsletter sull’America, dallo streamer che passa le giornate trasmettendo videogiochi su Twitch, al nomade digitale che ti insegna come mollare-tutto-per-dedicarti-finalmente-a-quello-che-ami™️ con un pratico videocorso a 499€. La definizione più generica e inclusiva potrebbe essere: chiunque riesca ad avere un’influenza tramite canali online e guadagnarci da vivere può definirsi un influencer o un creator. E i curators? Sono i galleristi digitali 2.0, i loro feed sono delle bellissime collezioni di contenuti, prodotti o arte creata da altri.
I business model della creator economy
Tanto varie sono le nicchie da soddisfare, tanto diversificate sono le strategie di monetizzazione per rendere il proprio lavoro sostenibile. Molte piattaforme permettono la monetizzazione di contenuti. Ad esempio, YouTube ha un programma di partnership dal 2007 (anche se le revenue sono piuttosto basse a meno che non si facciano milioni di visualizzazioni). Ci sono poi le sponsorship dei brand, che tramite l’influencer marketing cercano di arrivare al cuore della propria nicchia di mercato. Esistono i link affiliati, ovvero collegamenti a prodotti sulla cui vendita l’influencer guadagna una piccola percentuale (Amazon è il leader di questo tipo di monetizzazione).
Spesso il business model è una transizione dal free plan al premium a pagamento: ti regalo ore di video / newsletter / podcast gratis, ma se vuoi del materiale extra ed esclusivo devi iscriverti con un piccolo abbonamento. Le piattaforme per gestire gli abbonamenti sono infatti spuntate come funghi nell’ultimo decennio: Patreon per YouTubers, Twitch per streamers, OnlyFans per sex workers, Substack per le newsletter, Wattpad e Mirror per gli scrittori, Teacheble e Thinkific per chi crea corsi, Storytel o Audible per chi produce podcast.
Nel frattempo, le principali piattaforme social hanno sviluppato funzioni di monetizzazione interna per creators, nel tentativo di rallentare la fuga di utenti verso nuove piattaforme più redditizie. L’anno scorso TikTok ha lanciato un Creator Fund per pagare direttamente i suoi utenti che creano contenuti di successo; Snapchat ha lanciato un programma simile chiamato Spotlight; Twitter ha introdotto Tip Jar, un sistema per ricevere donazioni dai propri follower (persino in bitcoin) e Instagram sta sperimentando le storie esclusive.
Le piattaforme di monetizzazione sono però un mezzo redditizio solo per chi ha già un largo seguito. Essere un creator che guadagna richiede un’enorme sforzo in creazione di contenuti gratis, a volte per anni, prima di poter monetizzare veramente. E se il successo arriva presto, come per molti TikTokers, non è detto che duri.
I contro del mestiere, vuoi davvero fare l’influencer?
Secondo il New Yorker, l’emergente creator economy assomiglia per molti versi a una gig economy per contenuti digitali. I partecipanti sono principalmente lavoratori precari, che fanno affidamento sui capricci delle multinazionali social per il proprio sostentamento. Un influencer fa guadagnare la piattaforma che lo ospita senza ricevere le tutele legali e finanziarie dello status di dipendente, o le stock option generalmente date agli ingegneri, ai progettisti e ai manager della piattaforma.
Avere successo non è facile, e per un manipolo di creator che fanno i milioni ce ne sono migliaia che non guadagneranno mai una lira. È Un po’ come voler fare il calciatore per capirci.
Sia per chi ce la fa che per chi ci prova, per diventare o restare rilevanti, la presenza online deve essere massiva e costante, la vita privata spesso fusa con quella pubblica e lavorativa. È freelancing elevato al cubo: il prodotto lo crei tu e al tempo stesso sei tu, ma sei anche l’editor, il producer, il marketer, l’amministratore, l’addetto alle pubbliche relazioni, il tecnico. E per anni tutto questo rischia di essere un hobby o un secondo lavoro che erode la vita privata. È un mestiere totalizzante a dei livelli forse poco chiari al pubblico, e proprio per questo i createor stessi iniziano a parlare di creator burnout. Mariachiara Montera, blogger e venditrice di corsi di Marketing evidenza i principali fattori di burnout della categoria:
- La continua necessità di accrescere i propri più follower (+ follower = + visibilità, + opportunità di collaborazioni pagate)
- Il tempo trascorso sui social network che aumenta a dismisura, per produrre, interagire, rispondere e mantenere la community.
- La corsa a produrre contenuti che assecondino le tendenze
- Il paragone costante con chi ha numeri più grossi, lavora di più, porta avanti collaborazioni più interessanti, ha uno stile di vita migliore.
- La sensazione di doverci essere sempre, di dover produrre contenuti continuamente e di non potersi allontanare mai, pena l’oblio.
Per non parlare del platform risk. C’è da chiedersi infatti chi possiede veramente la community e i contenuti. Spoiler: quasi mai i creators.
YouTube, Instagram e qualsiasi altra piattaforma cambiano regolarmente il proprio algoritmo (nel 2018 le visualizzazioni della maggior parte dei creators si sono dimezzate da un giorno all’altro) o possono decidere di cancellare un account in maniera unilaterale lasciando al creator ben pochi strumenti per riprenderselo. Basti pensare a cosa stava succedendo con OnlyFans. Se costruisco una audience all’interno di una piattaforma su cui non ho nessun controllo, quell’audience è davvero “mia”? Tendenzialmente no, ma esistono disparità tra piattaforma e piattaforma. Diecimila iscritti a una newsletter valgono più di diecimila follower su Instagram — la prima è infatti una audience facilmente ‘migrabile’, di cui il creator è proprietario. L’escamotage per tutelarsi è cercare di spostare l’audience su una piattaforma di proprietà (come l’area riservata del proprio sito internet) o comunque diversificare la propria presenza digitale. E a questo punto non credo ci sia bisogno di soffermarci su cosa significhi “diversificare la propria presenza digitale” in termini di ore lavorative.
Allora, chi vuol fare l’influencer?
Extra:
- Come interagiscono creator economy e giornalismo? Ecco lo scenario americano e quello, ancora molto diverso, dell’Italia di Francesco Costa
- E creator economy e sex work? Un interessante articolo su Vox: Piattaforme come OnlyFans attirano influencers e VIP con un grande seguito, attratte dalla possibilità di guadagnare denaro facile. Che significa questo per le sex workers che c’erano già?